[ACM_2]L’accordo c’è, ma è separato. E deve superare la prova del referendum in fabbrica, martedì prossimo. L’intesa tra Indesit e sindacati è stata raggiunta al ministero dello Sviluppo economico nella tarda serata di martedì, con il sì di Fim, Uilm e Ugl e il no della Fiom. Mesi di trattative, una rottura due settimane fa per poi arrivare, in sostanza, ad accettare quanto proponeva l’azienda.

Non ci saranno i temuti 1425 licenziamenti, al loro posto ecco i contratti di solidarietà e la cassa integrazione per un migliaio di dipendenti fino al 2018, nell’ottica di una «riorganizzazione produttiva dei tre siti» e dello spostamento di alcune produzioni a basso prezzo in Turchia, «in modo da renderle strutturalmente competitive». L’operazione è riuscita, insomma, però il paziente è morto.

Esultano i firmatari: per loro l’ultima stesura dell’accordo «scongiura definitivamente ogni ipotesi di licenziamenti attraverso un adeguato utilizzo degli ammortizzatori sociali». Il piano di razionalizzazione, sottolinea con enfasi l’azienda, «è stato più volte migliorato», e l’amministratore delegato Marco Milani già vede all’orizzonte «investimenti per 83 milioni di euro».

Questi soldi, però, non serviranno alla produzione, ma alla ricerca e allo sviluppo. Il che vuol dire che la forza lavoro verrà cercata altrove, dove conviene di più, non in Italia. È scritto nell’accordo. Fabriano «sarà il centro esclusivo per la produzione ad alto contenuto d’innovazione di forni da incasso (producendo anche quelli oggi realizzati in Polonia), di forni di piccole dimensioni (oggi realizzati in Spagna) e di prodotti speciali per la cottura». Comunanza «sarà il centro per l’innovazione e la produzione di lavabiancheria ad alta gamma a carica frontale». Caserta «sarà il centro esclusivo per la produzione di frigoriferi da incasso ad alto contenuto d’innovazione (producendo quelli oggi realizzati in Turchia) e dei piani cottura a gas da incasso (oggi prodotti a Fabriano e originariamente destinati in parte alla produzione in Polonia)».

Messa così sembra quasi che dall’estero tutto tornerà verso la madrepatria, ma, spiega un operaio, «è come la storia dei carri armati di Mussolini», che venivano spostati qua e là per l’Italia nel disperato tentativo di farli sembrare più di quanti fossero. Gli arrivi da Turchia, Polonia e Spagna, infatti, sono temporanei: i reparti verranno sostanzialmente parcheggiati tra le Marche e la Campania per poi ripartire nel giro di qualche mese.

Le tute blu della Cgil alzano il tiro: «È un fatto gravissimo che pregiudica il futuro dei lavoratori e getta un’ombra sul ruolo svolto dalle istituzioni in una vertenza difficile come questa». La soluzione, per il sindacato, era un’altra, cioè «una ripresa del confronto che al tavolo del ministero non è stata cercata né dall’azienda, né da Fim e Uilm, né dal ministero e dalle regioni coinvolte». L’accordo separato, in conclusione, «lascia tutti irrisolti i problemi posti in sei mesi di trattativa e per i quali le lavoratrici e i lavoratori hanno messo in campo oltre 130 ore di sciopero: la vendita del gruppo Indesit, il futuro degli stabilimenti italiani, la salvaguardia dei livelli occupazionali».

La rabbia operaia è ancora tanta: questione di orgoglio ferito. Per decenni i Merloni sono andati in giro parlando della grande industria «made in Marche», del territorio come punto di forza, tanto che la figlia Paola è ormai al terzo mandato in Parlamento (prima con il Pd, adesso con i montiani), con i voti racimolati tra quanti vedevano in lei il volto buono di una classe dirigente industriosa e attaccata alle tradizioni. Col senno di poi, speranze tradite, promesse non mantenute, belle parole affidate al vento e presto dimenticate.

È anche per questo che l’accordo requiem della Indesit viene accolto con giubilo da tutta la politica marchigiana. Secondo il governatore Gian Mario Spacca – ex dipendete Merloni – siamo di fronte a «un’intesa che evita oltre 1.400 licenziamenti, difende il lavoro e la coesione sociale. Un risultato positivo ottenuto grazie a un grande senso di responsabilità in una fase estremamente difficile per l’economia delle Marche».

Forse la speranza è di tirare fuori un coniglio dal cappello nel giro di pochi mesi e rilanciare la regione in modo da evitare una delocalizzazione ormai scritta. A guardarsi intorno, però, il quadro è desolante: tra Pesaro e Ascoli chiudono decine di aziende ogni settimana, Banca delle Marche è immersa in un pantano di inchieste giudiziarie e buchi di bilancio, persino le squadre di calcio sono tutte fallite o sull’orlo del fallimento.