Quel che colpisce nelle rivolte attuali è la grande frammentarietà; sembra arduo persino raggiungere una visione d’insieme. Se l’estensione mondiale è certa, sarà altrettanto certo che si tratti del medesimo fenomeno? Non sarà una forzatura ricorrere allo stesso nome per indicare situazioni disparate? Tanto più che, a differenza dei moti del passato, non è semplice far emergere un’aspirazione comune. Se gli insorti del 1848 miravano alla libertà e alla repubblica, se i rivoluzionari del 1917 erano guidati dall’ideale novecentesco del comunismo, se coloro che scesero in piazza negli anni Sessanta e Settanta pensavano che presto un altro mondo sarebbe stato possibile, che cosa unisce le rivolte del XXI secolo?

SI PUÒ INSISTERE sulle dissomiglianze, su modalità e propositi discordanti: alcune rivolte sono episodiche, altre ricorrenti, alcune sembrano timidamente accennate, altre apertamente sovversive. Ma una particolarizzazione delle rivolte, che rifiuti di considerarle articolazioni di un movimento globale, finisce per avallare aprioristicamente la difesa dello status quo. Tutto sarebbe a posto – solo qui e là affiorerebbe qualche problema marginale.
Per indicare i complicati nessi tra le rivolte, le affinità mobili, i movimenti discontinui, le corrispondenze imponderabili, è opportuno forse parlare di costellazione. D’un tratto nel cielo notturno si raccolgono stelle lontane, scintille disperse, prima sottratte alla vista. Nell’inedita disposizione anche le stelle minori assumono valore, mentre si staglia una reciproca appartenenza altrimenti nascosta. Manca un nesso casuale, una direzione lineare e anche solo la parvenza di un inizio. La costellazione è senza un’arché, anarchica e sovversiva, esito fluido di una mobilitazione improvvisa che ha squarciato l’omogeneità delle tenebre. In quella simultaneità inattesa le singole luci s’intensificano, s’illuminano a vicenda, sembrano convergere in un punto focale. La congiuntura appare allora una prefigurazione allegorica.

NON STUPISCE che Benjamin sia ricorso all’immagine della costellazione per far implodere le architettoniche monumentali dei vincitori: è il modo di recuperare ciò che è stato rimosso, screditato, irriso. Quel che non è assurto alla dignità della storia spezza il flusso del divenire. Ma come le stelle si spengono, tornando allo spazio impenetrabile, così le rivolte possono dissolversi nel fondo abissale della storia. Quell’arresto fulmineo, quasi una conflagrazione simultanea, è il qui e ora dell’attualità che potrebbe sfuggire senza una lettura tempestiva. Urge perciò uno sguardo notturno al cielo della storia che trattenga le rivolte, le rammemori e le riscatti nella loro carica dissolutiva e salvifica.
Tentare di rinvenire i tratti comuni delle rivolte che costellano l’universo contemporaneo, senza perderne di vista l’inclinazione locale, significa accogliere una duplice sfida. La prima sta nel cercarne se non il filo rosso, almeno la corda sottesa, la cui unità è garantita dal soprapporsi e intrecciarsi di tante fibre. La seconda consiste nel focalizzare l’attenzione sulla cinetica rivoluzionaria dove la rivolta occupa un posto tanto importante quanto enigmatico.

NELLA CRONACA UFFICIALE la rivolta è relegata al margine. Se supera la censura, viene spettacolarizzata ed esibita nella sua trasgressiva oscurità. Accede allo schermo solo quando lo impongono gravità, urgenza, dimensioni. E tuttavia, ipervisibile e sovraesposta, resta comunque condannata all’insensatezza. Cortei, raduni, folle in piazza e – in un crescendo – colonne di fumo, vetrine infrante, auto e cassonetti in fiamme. Che sia Portland o Bagdad, Atene o Algeri, Santiago o Barcellona, dalle immagini affiora per lo più il disordine. E dal disordine si pretende di desumere la confusione di un evento caotico e inafferrabile. Di qui la scarsezza di riflessioni sul tema della rivolta che, pure, scandisce ormai la quotidianità.
Se la cronaca ne offre un quadro offuscato e fosco, assecondando la reprimenda pubblica e favorendo l’amnesia interpretativa, è perché la rivolta eccede la logica della politica istituzionale. Essere «fuori» non vuol dire, però, essere politicamente irrilevante. Sta qui, anzi, il potenziale della rivolta, che tenta di inoltrarsi nello spazio pubblico per sfidare sul suo terreno la governance politica. Non stupisce che la versione mediatico-istituzionale la releghi ai margini, la sminuisca nella sua portata, la proscriva dall’ordine del giorno, la riduca a fenomeno spettrale. La rivolta appare così un’ombra inquietante che si aggira intorno ai confini sorvegliati dell’attualità ufficiale.
Occorre perciò mutare prospettiva guardando alla rivolta non dall’interno, cioè dall’ordine statocentrico, bensì da quel «fuori» in cui si situa. Come non è un fenomeno trascurabile, così la rivolta non è il residuo di un passato arcaico, caotico e turbinoso, che il progresso, nella sua linearità, avrebbe affinato e superato. Non è anacronistica, ma anacronica, perché scaturisce da un’esperienza altra del tempo.
DIMENSIONE PECULIARE del disordine mondiale, la rivolta offre la chiave di lettura di un’epoca sempre più indecifrabile. L’esplosione della collera non è un fulmine a ciel sereno, ma un sintomo, un richiamo. Se la rivolta parla dell’oggi, che cosa dice? Come si può, come si deve interpretare? I criteri della modernità, che potevano forse prima essere efficaci, non sembrano più validi. Le cosmogonie sul senso della storia, le dialettiche totalizzanti, non fanno più presa e lasciano fuori, insondati e impenetrabili, i nuovi antagonismi politici.
Connessa a tali domande è la questione del rapporto con la politica. La rivolta contemporanea è considerata in genere pre-politica, se non addirittura proto-politica, perché incapace, sia per immaturità, sia per una sorta di infanzia della parola, di formulare rivendicazioni autentiche e di articolarsi in un progetto. Sarebbe allora impolitica, se con ciò si intende la difficoltà di entrare nello spazio politico istituzionale. In tal senso, però, dall’opposta angolazione potrebbe piuttosto dirsi iper-politica.

A BEN GUARDARE il rapporto della rivolta contemporanea con la politica non è solo provocatorio e conflittuale. L’attuale spazio politico è circoscritto dai confini dello Stato. Tutto quel che accade viene osservato e giudicato entro tali confini. La modernità degli ultimi due secoli ha fatto dello Stato il mezzo indispensabile e il fine supremo di ogni politica. L’ordine che regna è statocentrico. L’indiscussa sovranità dello Stato è sempre ancora il criterio che traccia i limiti e disegna la mappa dell’attuale paesaggio geopolitico. Ciò ha prodotto una separazione tra la sfera interna, sottoposta al potere sovrano, e quella esterna, consegnata all’anarchia. Questa fortunata dicotomia ha introdotto un giudizio di valore fra dentro e fuori, civiltà e inciviltà, regola e sregolatezza, ordine e caos. La sovranità statuale si è imposta come sola condizione dell’ordine, unica alternativa all’anarchia, screditata come mancanza di governo, confusione che imperversa nel fuori illimitato. La globalizzazione ha cominciato a minare la dicotomia tra sovranità e anarchia facendo affiorare tutti i limiti di una politica ancorata alle frontiere tradizionali. Se l’epicentro del nuovo disordine globale resta lo Stato, il paesaggio oltre confine si va popolando di altri protagonisti. Nuovi fenomeni, come le migrazioni, dischiudono uno squarcio, lasciano intravvedere ciò che accade fuori, spingono a prendere congedo da quella dicotomia, assumendo una prospettiva esterna.

IN MODO ANALOGO la rivolta si situa oltre la sovranità, nell’aperto da sempre consegnato all’anarchia. Quest’aperto va inteso non solo come spazio tra un confine e l’altro, ma anche come fessura, spiraglio nello scenario interno. La rivolta mostra lo Stato dalla finestra dei quartieri periferici, la fa vedere con gli occhi di chi è lasciato fuori o di chi si chiama fuori. Si capisce perché la politica statuale, coadiuvata dal racconto mediatico, punti a renderla oscura e marginale. Ne va infatti non solo, e non tanto, della singola rivendicazione, della richiesta contingente. La rivolta giunge a mettere in questione lo Stato. Che sia democratico o dispotico, laico o religioso – ne porta alla luce la violenza, ne destituisce la sovranità.