Ragionare di cosa la storia e il modo in cui ci rapportiamo ad essa ci possono dire non tanto di stagioni lontane, ma del loro lascito nel nostro presente, un «qui ed ora» che non potrebbe essere caratterizzato da maggiore inquietudine. Sono interrogativi decisivi quelli a cui si propone di offrire risposte, indicando anche nuove feconde piste di indagine, Sull’uso pubblico della storia, il volume-intervista a Davide Conti, integrato dal percorso di ricerca per immagini condotto da Paolo Pandullo, pubblicato da Forum nell’ambito del progetto Metaverso dell’Università di Udine (pp. 82, euro 14).

«L’ITALIA ha senz’altro rappresentato nel corso degli ultimi due decenni un laboratorio sperimentale di una involuzione storico-memoriale che possiamo definire “populismo storico”», spiega fin dalle prime pagine Conti, rispondendo alle sollecitazioni di Andrea Lucatello, per chiarire come quello che si è andato sviluppando intorno alla ricerca storica sia da tempo tutt’altro che un dibattito riservato agli «specialisti».

IL TENTATIVO DI RISCRIVERE la storia nei salotti televisivi ad uso e consumo delle forze di destra emerse nella cosiddetta Seconda repubblica, solo per citare un aspetto della vicenda, è ad esempio uno dei tratti distintivi della progressiva normalizzazione del «postfascismo».

La «calendarizzazione della memoria», che ha visto emergere la data del «Giorno del ricordo» dedicato alle foibe accanto a quello della memoria che celebra la liberazione del lager di Auschwitz, con un corollario di interventi e ulteriori proposte legislative tese ad equiparare «per decreto» due tragedie che uguali non sono, rappresenta poi un ulteriore passaggio nel tentativo di ridurre se non cancellare del tutto il lascito della dicotomia tra fascismo e democrazia che sta alla base della Repubblica nata dalla Liberazione e delle sue leggi fondamentali a cominciare dalla Costituzione.

IN QUESTO CONTESTO, la ricerca storica non ha dovuto rispondere, come accaduto nel recente passato, agli interrogativi posti ad esempio dal mondo postcoloniale per aprire ad una visione plurale una memoria troppo a lunga improntata all’eurocentrismo, ma sempre più spesso alla minaccia di piegare letture e interpretazioni agli esiti delle tendenze politiche montanti, come la crescita dei sovranismi. Una sfida cui in particolare il mondo accademico non sempre ha saputo offrire una valida opposizione.

Così, come sottolinea Conti, «troppo spesso perimetrato all’interno di circuiti chiusi, il sapere storico ha segnato il passo fino a essere travolto da una pervasività orizzontale delle opinioni (accelerata in modo esponenziale dai mass media e dalla rete) che, seppur lungi dall’essere un processo democratico e qualificante, ne ha minato alla radice la legittimità presso l’opinione pubblica».

Per far fronte a questa deriva, senza nulla togliere alla profondità del metodo scientifico, si dovrà pensare di rinnovare «le forme, la trasmissione e le modalità pubbliche di discussione» della storia. Anche intrecciando alle forme più classiche della ricerca, gli esiti e le testimonianze della memoria pubblica.

COME L’INEDITO ITINERARIO di Paolo Pandullo, proposto alla fine del volume con il titolo di «Lapidarium», e realizzato nel 1998, che documenta le tracce, attraverso lapidi, targhe e monumenti lasciate nel nostro Paese dalla violenza di Stato, dai morti di Reggio Emilia del 1960 a quella di Carlo Giuliani a Genova nel 2001 passando per le stragi fasciste degli anni Settanta.