Al centro della fotografia, tra il marciapiede e la strada, c’è il corpo di un uomo coperto da un lenzuolo insanguinato; intorno, le figure inginocchiate dei familiari accorsi dopo l’agguato di sicari che appartengono ai gruppi paramilitari responsabili dello sterminio di almeno cinquemila membri del partito di sinistra Unión Patriótica. Siamo a Medellín, è il 25 agosto del 1987 e l’uomo si chiama Héctor Abad Gómez, medico e professore che, minacciato più volte per la sua attività a favore dei diritti umani e per il costante sforzo di migliorare le condizioni sanitarie dei più poveri, non ha voluto esiliarsi né tacere.

DAL BIANCO E NERO un po’ sgranato emerge in primo piano un ragazzo attonito e sconvolto, il figlio della vittima appena rientrato dall’Italia (dove tornerà l’anno seguente, per restarvi fino al 1992) e destinato a diventare uno degli scrittori colombiani più interessanti e autorevoli, che quasi vent’anni dopo pubblicherà un romanzo sul padre e sceglierà come titolo il primo verso di un sonetto firmato JLB – le iniziali di Jorge Luis Borges – trovato nella tasca dell’ucciso: Ya somos el olvido que seremos.

Dopo il grande successo del romanzo (L’oblio che saremo, Einaudi 2014), dal quale il regista spagnolo David Trueba ha tratto di recente un film, quei versi provocano però una polemica vagamente pretestuosa: più d’uno fa presente che non sono rintracciabili nelle raccolte di poesie dello scrittore argentino e neppure nelle sue Opere complete, e che si tratta perciò di un’attribuzione sbagliata o di un’invenzione intenzionale. Héctor Abad Faciolince decide così di scoprire chi è davvero l’autore del sonetto e in che modo suo padre ne è venuto in possesso, e dà inizio a un complessa ricerca, poi narrata in Una poesia in tasca, racconto inserito nel 2010 nel trittico Traiciones de la memoria e oggi ottimamente tradotto da Monica Bedana per Lindau (pp. 86, euro 12).

UN’IMPRESA FILOLOGICA, quella narrata da Abad, ma anche un’avventura, che ha richiesto tempo, viaggi (da Medellìn a Mendoza, a Buenos Aires, a Parigi) e lunghe indagini d’archivio, ha fatto nascere amicizie e interpellato studiosi, critici, scrittori. A poco a poco, in quello che all’inizio sembrava un desiderio del tutto personale affiorano temi più generali: chi decide sulla qualità dell’opera letteraria, e in che modo? Fino a che punto il giudizio viene influenzato dal prestigio dell’autore? Uno scrittore è contrassegnato sempre e comunque da un «marchio di fabbrica» che lo rende riconoscibile, o è lo sguardo del critico a crearlo?

All’inizio diversi studiosi ed esperti, nonché la stessa Maria Kodama, che dètta capricciosamente legge sull’opera di Borges, ritengono il sonetto un semplice apocrifo, e un bizzarro poeta colombiano sostiene addirittura di esserne l’autore, impantanandosi poi in versioni sempre più contraddittorie e fantasiose. E finalmente, dopo i pareri negativi e le false piste, una scoperta improvvisa avvia Abad e la sua rete di eterogenei assistenti verso prove inoppugnabili: non solo la poesia (letta, come si scoprirà, da Abad padre durante un programma radiofonico) è un inedito di Borges, ma il percorso fortunoso che l’ha portata fino alle tasche di un uomo assassinato rappresenta di per sé materia di racconto.

Una poesia in tasca ci appare dunque come una sorta di poliziesco letterario, ma tocca anche altri generi, dal racconto iperrealista alla fiaba (richiamata più volte dall’autore stesso): il sonetto è il premio che attende l’eroe al termine del viaggio, gli aiutanti magici sono coloro che, sparsi per il mondo, imprimono alla storia svolte positive, non mancano creature ostili e ingannatrici, e non è certo difficile immaginare Maria Kodama nelle vesti della bizzosa Duchessa di «Alice». Tutto confluisce, infine, in una riflessione sulla mutevolezza e gli inganni della memoria, dando vita a un vero conte philosophique, o forse disegnando la mappa di un tesoro ritrovato che aggiunge un nuovo tassello all’evocazione della figura paterna.

Testo letterario nato dall’inseguimento di un altro testo, Una poesia in tasca suggerisce al lettore anche un’ultima tentazione, quella di leggerlo come un racconto di Borges o un suo scherzo postumo. Perché non c’è dubbio che a lui, maestro «dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee», una storia come questa sarebbe piaciuta moltissimo.