Era facile prevedere che sarebbe stato uno spettacolo importante (per il tema, la regia e l’investimento del Piccolo teatro), e tale si conferma Freud o l’interpretazione dei sogni (fino all’11 marzo allo Strehler). Un grande spettacolo, di grande impegno scenico e di ottime prestazioni da parte degli attori. Disseminato anche di piccoli omaggi, citazioni, somiglianze e allusioni ad alcuni padri fondatori della scena italiana, da Luca Ronconi in giù. Visioni che certo non saranno casuali, ma che scoprono l’impegno e la sicurezza con cui il regista Federico Tiezzi ha lavorato a un progetto di cui nessuno, prima, avrebbe potuto garantire la fattibilità. E neanche si tratta di uno spettacolo «facile», per l’importanza e la profondità con cui il pensiero ed il genio di Freud hanno permeato l’intero novecento, alla cui alba lo studioso viennese volle mettere proprio L’interpretazione dei sogni, che in quel fatidico anno di passaggio venne dato alle stampe.

Attingendo ad alcuni dei casi clinici freudiani e alle riflessioni e ai coinvolgimenti dello stesso scienziato, il testo è stato scritto da Stefano Massini, e poi ridotto e adattato dallo stesso Tiezzi con Fabrizio Sinisi. La scena apparentemente vuota di Marco Rossi è fin dall’inizio un congegno di avanzata orologeria: sipari trasparenti su cui giocano le invenzioni video di Luca Brinchi e Daniele Spanò, e in basso tutta una teoria di porte da cui entrano ed escono, spaventano e si terrorizzano, si interrogano e si concentrano tutti i personaggi vagliati dall’occhio indefettibile di Freud. Sogni, incubi, paure e le apparenti «gratuità» da loro portati, si specchiano e si dilatano in quello che è il bagaglio esistenziale prima ancora che scientifico dello stesso Freud, ovvero Fabrizio Gifuni. Che per tre ore (con un breve intervallo) conduce in maniera strepitosa il gioco incessante dell’indagine e della ricostruzione; dei casi dei suoi pazienti ovviamente, ma anche dei nodi privati del terapeuta, tanto da materializzarsi nudo (come in un suo famoso Pasolini) al funerale che è probabilmente quello del padre.

Proprio come la psicanalisi è ormai una indagine ineliminabile quanto necessaria, pur senza essere una scienza meccanicamente esatta, così lo spettacolo di Tiezzi azzarda linguaggi, espressioni, trompe l’oeil, cesure e apparizioni, riuscendo a scaldare la temperatura dello spettacolo, che pure nei momenti di maggior vitalità non rischia però mai di perdersi, né di far perdere pathos e concentrazione allo spettatore. In quella Vienna che all’inizio si anima tra un valzer e una notte trasfigurata, si entra subito consapevolmente in uno spettacolo cinematografico (con cui la psicanalisi ha notoriamente più che una parentela, non solo anagrafica) sfruttando del cinema le infinite possibilità grammaticali, sintattiche, visionarie, temporali. Vanno e tornano i personaggi e le signore di grande eleganza (merito di Gianluca Sbicca) che riveste i nodi problematici e irrisolti del loro essere.

E bisognerebbe nominarli tutti gli attori meravigliosi che quelle vite fanno girare, da Elena Ghiaurov a Sandra Toffolatti, Valentina Picello, Bruna Rossi, Debora Zuin, e Giovanni Franzoni, Marco Foschi e il veterano del Piccolo Umberto Ceriani. Ma sono tutti bravissimi, attorno a Gifuni/Freud, grande e umanissimo mago delle loro «incomprese» esistenze.