James Stewart nella scena del campanile in “Vertigo” di Alfred Hitchcock, U.S.A. 1958

 

Nell’estate del 1962 François Truffaut intervistò Alfred Hitchcock agli studios della Universal, nelle pause di lavorazione del montaggio degli Uccelli. In quelle conversazioni, che Truffaut avrebbe trasformato in uno dei libri di cinema più amati di sempre, Hitchcock si soffermò a commentare con il più giovane collega un dettaglio tecnico delle riprese della Donna che visse due volte (il cui titolo originale è Vertigo). Si tratta dell’espediente con cui era riuscito a rendere cinematograficamente la distorsione emotiva e coscienziale del protagonista Scottie (James Stewart) quando fissa il vuoto nella tromba delle scale del campanile dove si svolge la scena più nota del film: in quella scena Hitchcock aveva riprodotto il senso di vertigine di Scottie combinando in simultanea una carrellata all’indietro con uno zoom in avanti.
È da questo dettaglio, svelamento di un effetto illusionistico tanto semplice quanto geniale ed efficace, che prende le mosse l’ultimo libro di Andrea Cavalletti, intitolato appunto Vertigine (Bollati Boringhieri «Temi», pp. 227, € 16,00). Si tratta idealmente dell’ultima tappa di un percorso iniziato con Classe (2009) e Suggestione (’11) – usciti sempre dallo stesso editore – ma che si può far risalire già a La città biopolitica (Bruno Mondadori ’05). Un percorso che, come lo sguardo di Scottie in cima al campanile di Vertigo, procede a spirale verso un centro e un fondo: dal ruolo dell’immaginazione nel paradigma biopolitico alla suggestione ipnotica come metafora del dominio della società moderna sugli individui fino ad arrivare all’incantamento primigenio, la vertigine, che il sottotitolo del libro definisce come «la tentazione dell’identità». Ed è appunto la connessione essenziale tra vertigine e identità ciò che il libro di Cavalletti vuole far emergere, attraverso una traiettoria che va dalla medicina classica ad Heidegger e che porta il disturbo dalle periferie degli elenchi di patologie al cuore stesso della filosofia. Una traiettoria, quella di Cavalletti, che il lettore può seguire non senza sperimentare in prima persona un po’ della vertigine evocata, perché l’opera del filosofo dell’Università di Verona non fa certo parte del novero dei testi che di filosofico hanno poco più che un’allure, una posa che tradisce, dopo poche pagine, un’indagine debole o poco urgente. Al contrario, qui l’argomentazione e la scrittura di Cavalletti procedono in maniera densa e serrata, e se è vero ciò che diceva Giorgio Colli, che il vigore di un filosofo si misura dall’ampiezza della rete che getta sulle cose «tentando di afferrarle e di stringerle», si può affermare che Cavalletti si dimostra capace di tale vigore. E lo è tanto più perché in grado di intrecciare, nella sua rete, la trama della ricerca teoretica con l’ordito dell’analisi e della rielaborazione delle scene del film di Hitchcock, in un dialogo che non è semplice giustapposizione o, peggio, concessione al gusto imperante per l’ammiccamento alla cultura pop, ma vera ragion d’essere del percorso. Perché come la detective story di Scottie in Vertigo è un viaggio tra identità perdute e ricercate, in un territorio – come scrive lo studioso di religioni Gerardus Van der Leew – in cui «il confine tra la vita e la morte è quello che distingue due modi d’essere, non quello che contrappone l’essere e il nulla», così l’investigazione teoretica sulla vertigine porta il filosofo nella ‘camera chiusa’ del soggetto, di fronte al movimento che ne disegna l’identità, l’integrità e la coerenza. Termini questi, intimamente legati, perché messi in discussione dalla vertigine stessa, nella misura in cui questa indica un timore che è al contempo voluttà, un’oscillazione tra il raccoglimento in ciò che è proprio e sicuro e lo slancio verso l’aperto e il pericoloso.

Il punto di svolta nella considerazione della vertigine da disturbo somatico a oggetto delle scienze dell’anima è rinvenuto da Cavalletti nella riflessione dell’allievo di Kant Marcus Herz; questi aveva consacrato al problema un trattato che, sebbene dedicato al maestro, aveva suscitato appena un suo sguardo, poiché Kant si definiva «immune da vertigini». Ma forse quell’atteggiamento di sufficienza era determinato da qualcosa di più profondo, perché la spiegazione di Herz del fenomeno delle vertigini sembrava mettere in discussione lo stesso impianto delle forme pure dello spazio e del tempo per come le aveva pensate il suo maestro: secondo Herz, la vertigine è data da un disordine nella rapidità con cui la coscienza individuale concatena le rappresentazioni, e questo tipo di spiegazione rendeva implicitamente le forme a priori dello spazio e del tempo soggette, in maniera inconcepibile per Kant, al mutamento e alla confusione.
Nella traiettoria di Cavalletti, il movimento decisivo verso la comprensione filosofica della vertigine è dato ancora una volta dalla lettura ‘eretica’ della lezione di un maestro, ossia dall’interpretazione della nozione husserliana di habitus – che indica l’identità concreta del soggetto – fornita dallo storico dell’arte e delle idee Robert Klein. Nella sua riflessione, Klein apre tale nozione al tema dell’alterità, affermando che la costituzione dell’habitus, e dunque del soggetto, deve passare attraverso lo sguardo dell’altro, dell’estraneo, configurandosi come un movimento necessariamente intersoggettivo. Ciò che sembra monolitico, la costituzione di quanto è più intimo e proprio – la concretezza dell’ego – è perciò originariamente dialogico. E quindi vertiginoso, perché il soggetto riesce a determinarsi solo guardandosi attraverso gli occhi dell’altro, come un altro, in un movimento che oscilla tra i due poli dell’intimità e dell’intersoggettività. Per utilizzare la metafora dell’alpinista arrampicato su una parete rocciosa, si può dire che il suo «qui» è attirato/respinto dal «là» dello spazio vuoto, assoluto, che lo reclama. E dunque vertigine è la perdita della centralità e del raccoglimento dell’ego che viene proiettato nel «baratro» dell’intersoggettività da cui si osserva, in una tensione che mantiene intatti tanto la paura quanto il desiderio della caduta. La vergogna e il rimorso sono esperienze che esemplificano il capogiro di una coscienza che allo stesso tempo si riconosce e disconosce.
La mossa filosofica qui è identica e parallela alla trovata cinematografica hitchcockiana, allo zoom combinato alla carrellata all’indietro (e l’oscillazione «avanti-indietro» è ancora, in un denso capitolo dedicato ad Heidegger, il movimento di costituzione del soggetto in rapporto alla morte e alla sua anticipazione). Il cinema appare così come la tecnica in grado di restituire in maniera essenziale il rispecchiamento vertiginoso del soggetto e il suo legame con la morte. E qui la traiettoria di Cavalletti si fa quanto mai vertiginosa nell’accennare a un possibile uso politico del denouement della macchina ontologica che «costituisce e plasma le soggettività». Vertiginosa perché in ultima analisi sovversiva. Un abbandono della «finzione violenta del sé», della «tentazione dell’identità» (per tornare al sottotitolo del volume) verso un orizzonte di otium, di inoperosità di ascendenza agambeniana: «Vivi la sola nudità, sii la vita delle piccole sensazioni, disperditi in un’aura senza morti o nella differenza delle maschere». Un salto, verrebbe da dire persistendo nel parallelo cinematografico, che da Vertigo porta a Matrix: per usare ancora le parole di Cavalletti, «il sogno dell’indeterminato che gli occhi attenti sognano, prolungandolo, nel sogno mortifero della determinazione».