Se è da Gayatri Chakravorty Spivak – e dal suo saggio Can the Subaltern Speak? – che il recente volume orchestrato da Lorenzo Coccoli, I poveri possono parlare? Soggetti, problemi, alleanze (Ediesse, pp. 160, euro 13) si fa suggerire il titolo, allora non è forse illegittimo impiegare una categoria di cui le siamo debitori per tentarne una lettura. Si tratta dell’idea secondo cui quella di «subalterno» è una «posizione senza identità».

I CINQUE SAGGI ordinati nel libro non fanno che applicare questa intuizione ai soggetti che diciamo «poveri» o «precari» che non si identificano con un campione dedotto da una statistica e neppure costituiscono un soggetto collettivo o una classe dotata di qualità tali da definirla una volta per tutte e votarla a un destino politico speciale. «Posizione senza identità» vuol dire che quella di essere povero o di essere precario non è un’essenza ma una condizione. Il suo carattere più proprio è perciò quello della virtualità: non ci sono dunque i poveri – gruppo identificabile o classe definita – ma la povertà come «condizione» che definisce i contorni di un’esperienza soggettiva il cui pedigree morale o il cui tasso di politicità può essere descritto e misurato soltanto dotandosi di strumenti di analisi sensibili a restituire le logiche dei contesti.

È proprio ciò in cui si impegnano le ricerche raccolte nel volume: Sara Sermini sulla povertà in letteratura; Carolina Amadeo sulle occupazioni urbane in Brasile; Enrico Gargiulo sul rapporto tra identificazione e povertà; Veronica Pecile sugli «urban poor» di Palermo; Maurilio Pirone sui lavoratori del capitalismo di piattaforma. Cinque colpi di sonda dedicati a illustrare che cosa la povertà «fa» ai soggetti.

IN ESTREMA SINTESI: la «povertà» descrive i limiti della capacità di azione di un soggetto in rapporto a un certo numero di risorse. Né (o non solo) proletario né (o non solo) subalterno: è povero chi non ha o ha meno di altri (il che è anche quanto permette di distinguerlo da chi è ricco). Si tratta di una definizione stipulatoria e polemica ma non certo gracile giacché introduce una complicazione del quadro analitico non priva di effetti politici.

Se il povero non coincide né con il proletario né con il subalterno, se ciò che lo identifica si svolge sul piano della distribuzione più che su quello della produzione della ricchezza, allora l’analisi della sua esclusione non può non divorziare, almeno temporaneamente e regionalmente, da quella dello sfruttamento. Spossessati come i proletari ma esclusi dal circuito della valorizzazione e dal rapporto di capitale, dunque a rigore neppure «sfruttati», i poveri sono ammessi nel teatro capitalista come «oggetto» di speciali cure, attenzioni e «policies» che, proprio mentre li sospendono – bisognosi e incapaci – in questo «fuori» della produzione, tuttavia li trattengono nell’orbita pedagogica, morale e ideologica del lavoro e dell’economia informale.

Un’analisi della povertà identificata come «condizione» interessa quindi un numero crescente di attrici e attori sociali e – in un’epoca di «evaporazione» del salario – essa cessa di segnalare semplicemente un’aberrazione dalla norma dell’inclusione nelle dinamiche della produzione di valore e nelle forme classiche dell’organizzazione contro lo sfruttamento e comincia a definire una nuova «normalità». Si spiega così l’apodittico titolo dell’introduzione firmata da Coccoli – «I poveri che dunque siamo» – che pure non ha nulla di fatalistico, piagnucoloso o consolatorio. Al contrario: la virtuale universalizzazione della condizione di «povertà» obbliga a rettificare non soltanto i quadri epistemologici ma pure i vocabolari politici.

Vale a dire che da condizione difettosa a fronte di una norma che aveva trovato nell’accoppiata lavoro-cittadinanza la sua forma eminente, la «povertà» – bonificata da ogni retaggio moralistico – reclama oggi un pensiero e una politica affermativa, capace cioè di riconoscere nell’estraneità al regime salariale e alla condizione di piena cittadinanza uno spazio in cui vite consistenti e degne possono organizzarsi e riprodursi.

OCCORRE APPENA ricordare in conclusione che la risposta di Spivak alla domanda sulla possibilità di parlare del subalterno era in definitiva un secco «no». I saggi raccolti nel volume, sostituendo il soggetto dell’interrogativa, cambiano anche il segno della risposta: se l’inchiesta sulla capacità di agire dei poveri è un regesto della distribuzione diseguale di risorse materiali e simboliche, un repertorio delle condizioni che abilitano o inibiscono la parola, un censimento dei modi in cui si organizzano i contesti della loro «udibilità», allora una politica dei poveri non è altro che il catalogo di tutte quelle azioni e quelle pratiche che ci impegnano e ci riguardano.