Il «Manifesto per la costruzione di una comunità globale» di Mark Zuckeberg può essere considerato l’espressione politica più aderente allo spirito di quel «capitalismo delle piattaforme» sul quale si concentra l’attenzione di una nutrita schiera di studiosi, opinion makers, come testimonia il recente volume di Nick Srnicek Platform Capitalism (Polity, il manifesto del 14 febbraio 2017). Il documento di Zuckeberg illustra in maniera dettagliata la strategie imprenditoriale di Facebook, che ha come materia prima l’elaborazione della comunicazione, delle emozioni, dei contenuti di oltre un miliardo di persone.

COME È NOTO, il social network gestisce una mole enorme e in continua crescita di dati che servono successivamente come data base per la vendita di spazi pubblicitari e per strategie personalizzate di messaggi pubblicitari. Non è però passato inosservato il fatto che il «manifesto» è uscito negli stessi giorni della pubblicazione del decreto del presidente Donald Trump che vieta l’ingresso negli Stati Uniti alle donne e agli uomini nati in alcuni paesi islamici.

L’USCITA DI ZUCKEBERG, e un testo di critica sottoscritto dalle maggiori imprese della Silicon Valley, ha fatto scrivere dell’opposizione delle imprese operanti in Rete verso la politica del presidente statunitense. In molti hanno scritto che le imprese delle Rete hanno deciso la loro scesa in campo. Ma non è certo la prima volta che queste come altre imprese si comportano come «soggetti politici».

La rappresentazione emergente vede da una parte i «globalisti», cioè le imprese protagoniste del capitalismo delle piattaforme, che propongono politiche cosmopolite di difesa dei diritti civili delle donne, delle «minoranze» e dei migranti; dall’altra un immaginario popolo statunitense. Due modi di concepire lo sviluppo capitalistico e di governo della cosa pubblica che entrano in conflitto, dando vita a inedite e contingenti «alleanze». I globalisti assieme ai movimenti delle donne, dei migranti. I protezionisti che invocano l’unitarietà e l’omogeneità del popolo e del «made in Usa», ignorando il fatto che gran parte dei manufatti – materiali o digitali – vengono prodotti in luoghi certo non americani.
Sta di fatto che la tensione tra vocazione globale del capitalismo e difesa delle imprese locali è salita negli Stati Uniti a livelli inimmaginabili solo alcuni mesi fa. È certo una semplificazione che coglie tuttavia un elemento di verità. Il suo limite sta semmai nell’incapacità di fare i conti con un elemento centrale del capitalismo delle piattaforme, sintetizzato efficacemente dalla studiosa Tiziana Terranova in un testo pubblicato on line a commento del documento di Zuckeberg: Facebook: come molte altre imprese della Rete, il «capitalismo delle piattaforme» punta a «un governo delle vita», cioè delle emozioni, degli stili di vita, delle relazioni sociali che ogni singolo uomo o donna ha dentro e fuori la Rete (www.technoculture.it/category/blog/).

«PLATFORM CAPITALISM» vuol dire tuttavia molte cose. Innanzitutto precarietà dei rapporti di lavoro, proliferazione delle forme contrattuali, forte differenziazione e nuove forme di gerarchia nella divisione sociale del lavoro, ruolo di governo della finanza nell’economia mondiale, la città pensata come uno indistinto, poroso spazio produttivo. In altri termini parlare di capitalismo delle piattaforme vuol dire analizzare il regime di accumulazione contemporaneo.

È ATTORNO A QUESTO ORDINE di problemi che ruota il convegno organizzato da Euronomade e lo spazio autogestito Macao che inizierà domani a Milano (Via Molise 68, ore 18. Il programma è consultabile nel sito: www.euronomade.info).

Per due giorni, studiosi, mediattivisti affronteranno molti dei temi racchiusi dentro l’espressione «capitalismo delle piattaforme», mentre sabato pomeriggio i lavori prevedono un workshop dove saranno condivise sperimentazioni, percorsi teorici e politici nati dentro e contro il platform capitalism. Molti i contributi. Da Sandro Mezzadra a Geert Lovink, da Ned Rossiter a Matteo Pasquinelli, da Ugo rossi a Brett Neilsen, da Toni Negri a Andrea Fumagalli a Roberto Ciccarelli .