Reality, in concorso a Orizzonti ma sicuramente meritevole di migliore collocazione, è un incubo cannibale che si nutre del non-sense dei fratelli Zucker, delle tv di Tobe Hooper e dei (non) risvegli di Brian De Palma. Il cinema di Quentin Dupieux, musicista di punta dell’electro-clash francese (come Mr. Oizo) esploso alla fine degli anni ’90 e regista oramai al quinto film, non si limita alla sterilità primitiva del citazionismo ma sperimenta con lucida intelligenza e uno sguardo ai fiori blu di Quenueau, gli spostamenti progressivi del piacere del meccanismo e del genere.

L’equazione cinema/sogno, nelle mani di Quentin Dupieux, si trasforma in un maelstrom dove è quasi impossibile distinguere realtà e immaginazione ma non è che il punto di partenza per cesellare ancora una volta il suo cinema neo-surrealista, inaugurato nel 2002 con Steak, per poi perfezionarsi in un pastiche pop di generi hollywoodiani, satira, videoclip e frizioni allucinatorie sulla quotidianità degli Stati Uniti e le trappole della macchina cinema.

Jason è un operatore televisivo, in perenne sonnambulismo, che lavora per una strampalata trasmissione condotta da un giovane nerd (il Jon Heder, protagonista di Napoleon Dynamite e Scuola per canaglie) con un costume di cinghiale addosso e un eczema invisibile che complica le registrazioni del programma.

Le sue dita inquadrano costantemente la vita che scorre, nel classico gesto delle mani che si trasformano in macchina da presa, alimentando il suo sogno di girare un film dal titolo Waves, horror catodico dove le televisioni di tutto il mondo uccidono i loro proprietari emanando onde assassine ma il suo produttore, campionario satirico di tanti tic dei professionisti dell’industria, prima di firmare il contratto, vuole che Jason trovi il gemito perfetto per accompagnare le esplosioni corporee delle vittime «televisive».

http://youtu.be/c6KLYj8DMfU

Nel frattempo la piccola Realité accompagna il padre a caccia di cinghiali per poi intravedere fra le viscere dell’animale, durante la tassidermia, una videocassetta blu ma è tutto un altro film, girato da un ex documentarista di nome Zog (sorta di crasi al contrario fra God e Mago di Oz), a sua volta prodotto dal nevrotico Bob Marshall.

Nella spasmodica ricerca dell’urlo, Jason e la moglie psicanalista si perderanno fra presidi paffuti travestiti da donna, frattaglie di animali squartati, addirittura in una sala cinematografica che proietta Waves, ancora prima di essere girato, mentre all’ingresso viene indicato in programmazione Rubber 2, seguito (chissà…) del film di Dupieux del 2010 dove uno pneumatico prendeva improvvisamente vita. Inutile domandare un racconto lineare sui (veri) meccanismi allucinatori perché Quentin Dupieux ama di più le infinite combinazioni di sensi e colori, dove il plot si fonde continuamente per poi rivivere di altri significati.

on è un caso se ad accompagnare le immagini sature del film, ci siano le note minimaliste di Philip Glass e del suo Music with Changing Parts, capolavoro, austero e ipnotico, per quattro tastiere che si divertono in saliscendi armonici con inaspettate e impercettibili variazioni, come l’infinito pentagramma visivo/narrativo del regista.