Nel 1978 la biologa Irene Pepperberg tentò di insegnare un’intera lingua a un pappagallo. L’esperimento sortì un risultato piuttosto soddisfacente, se si considera che Alex, questo il nome del volatile, fu in grado di memorizzare e replicare centocinquanta vocaboli; colori, forme, ma anche concetti complessi. Conosciamo tale astuzia linguistica, utile a guadagnare all’animale laute ricompense in cambio del suo eloquio, come virtù esclusiva dei pappagalli. Risulterà, perciò, quantomeno curioso che esperimenti simili siano stati condotti anche con gorilla, delfini e persino elefanti, e che le prime interazioni verbali tentate con altre specie abbiano utilizzato esclusivamente il linguaggio umano, in improbabili repliche di conversazioni infantili.

Questo, come numerosi altri esempi proposti da Eva Meijer nel suo Linguaggi animali, hanno tuttavia il merito di rivelare come la conversazione interspecie custodisca altri messaggi, più periferici, opachi all’uomo e invece chiari o utili all’animale, il quale riesce, in un certo senso, a parlarci nonostante non parli. È il momento stesso della relazione, del gioco linguistico – concetto qui mutuato da Wittgenstein – a permettere all’animale di creare altre strade per comunicare informazioni e, perché no, sentimenti, passioni.

LO STESSO TITOLO DEL SAGGIO è d’altro canto un piccolo gioco di parole: l’espressione linguaggi animali, anziché definire un’alterità, indica una pluralità che include lo stesso linguaggio umano, scalzato dalla sua posizione preminente.
È come se l’umano si fosse rivelato finora un cattivo traduttore: incapace di comprendere appieno la grammatica animale, nella pretesa che le altre specie si adeguino ai propri standard cognitivi, ha voluto sminuire il proprio interlocutore. Non potendo restituire la forma e lo spirito della lingua altrui, il traduttore accusa il tradotto di scrivere male. Ma c’è di più. L’altra accusa, velata, è che l’animale non si interessi a noi, sovrani del regno, perché non interessato a sé stesso. Meijer invece ribadisce che l’animale è capace di provare dolore, in certi casi è dotato di memoria, ha un suo modo di relazionarsi al fenomeno della morte. La tracotante, umana solitudine, il luogo della coscienza nella cui profondità sembra risiedere la nostra differenza, si apre a un orizzonte più ampio; nella solitudine, siamo forse meno soli.

L’AMICIZIA FRA SPECIE si evolve in relazione politica; Meijer va al di là dell’estensione dei diritti alle altre specie quale risarcimento, e arriva a immaginare una comune deliberazione politica. Nel rilanciare, pare tuttavia riproporre una simbologia antropocentrica: come scrive Bruno Accarino in Zoologia politica «gli animali non fanno politica, a meno che a convocarli a questa incombenza non siano gli uomini con le loro metafore».
Qui la metafora della democrazia, fondata sul principio dell’estensione dei diritti, non fa che sostituirsi a un’altra più radicata, quella della contesa e della conquista. D’altronde, come afferma la stessa autrice, «abbiamo uno sguardo sulle cose naturalmente umano», che aspetta solo di essere contaminato.