Strano destino quello di un paese-continente qual è il Brasile che si presenta, in un già pungente ottobre tedesco, come ospite d’onore alla Buchmesse di Francoforte con lo slogan «Un paese pieno di voci», utilizzando un manifesto il cui sfondo richiama abbastanza esplicitamente l’arte grafica di una avanguardia chiamata Concretismo (1956), nata «nella dura poesia concreta degli incroci» di São Paulo. «Un paese pieno di voci» è un programma e, forse, somiglia a una speranza ma è soprattutto una espressione mutuata da un verso di Ferreira Gullar: «Estamos todos nós cheios de vozes que o mais das vezes mal cabem em nossa voz» (Siamo tutti noi pieni di voci che il più delle volte a malapena entrano nella nostra voce), lo stesso poeta che una quarantina d’anni fa fu costretto all’esilio dall’ottuso e feroce regime dei militari (1964-1985).
Il Brasile di oggi prova a immaginare se stesso non più in quanto terra dell’avvenire, come ancora negli anni quaranta del secolo scorso lo aveva rappresentato l’esule austriaco Stefan Zweig, riconoscendosi piuttosto nell’istantanea del presente con cui si lascia fotografare nella vitrine libraria più importante e imponente di questa parte di mondo che è l’Occidente. Per la seconda volta, nel giro di soli vent’anni (la prima era stata nel 1994), ospite d’onore alla Buchmesse, il Brasile come cultura giunge puntuale all’appuntamento con l’editoria mondiale, con le sue tecnologie e le sue politiche, le sue manie e idiosincrasie. Preparato sin dal 2010, il progetto-Brasile avrà il suo momento clou nei giorni della kermesse tedesca, che tuttavia funziona solo da evento finale e spettacolare di una costellazione di appuntamenti disseminati in questi mesi in tutta la Germania. L’azione editorial-istituzionale del gigante sudamericano, che vive ancora come un privilegio l’insularità linguistica del portoghese in un mare ispanofono, ha tre spazi-chiave: il grande padiglione espositivo da 2500 mq dove passeranno i settanta autori (poeti, romanzieri, saggisti, scrittori di letteratura per l’infanzia) per incontri e conferenze, il mega-stand collettivo delle case editrici brasiliane (1500 quelle ufficialmente presenti), un programma culturale parallelo alla Fiera con esposizioni di arte (fra cui spicca la mostra dedicata a Hélio Oiticica), spettacoli di teatro e danza, mostre di cinema e performance negli spazi culturali e nei musei della città. Numeri e dati impressionanti che, per limitarci al solo ambito del libro, dimostrano una programmazione estremamente curata e lungimirante: l’internazionalizzazione della letteratura brasiliana passerà inevitabilmente di qua anche grazie al progetto di sussidio finanziario concesso alle traduzioni di opere brasiliane all’estero che, partito da pochi anni, può oggi contare su quasi trecento edizioni (2011-2013) di cui una cinquantina solo per il mercato di lingua tedesca.
Del resto, il cospicuo gruppo di scrittori brasiliani a Francoforte, paradigmatico perché rappresentativo di almeno tre generazioni letterarie, va assunto come un parziale laboratorio da cui traguardare solo per frammenti una «possibile» storia del complesso e densissimo Novecento nazionale.
Al di là dell’inevitabile Paulo Coelho, che solo un frainteso pigro immaginario italiano ha scelto di identificare come lo scrittore del Brasile, la presenza brasiliana a Francoforte rivela un’altra idea di contemporaneità letteraria che pare stia fuoriuscendo (ma è ancora presto per dirlo) dall’ossessione per la ricerca e l’affermazione di un’identità brasiliana chiosata sin dagli anni venti in mille variazioni: da un lato certi autori già classici come Nélida Piñon, João Ubaldo Ribeiro, Afonso Romano Sant’Anna, Ignacio de Loyola Brandão canonizzati dalla critica dentro il gioco delle generazioni della seconda metà del ventesimo secolo, dall’altro una serie di autori che, debuttando nel Brasile democratico post-1985, hanno già conosciuto una consacrazione a livello internazionale – Bernardo Carvalho, Milton Hatoum, João Almino, Luiz Ruffato, Patrícia Melo, Paulo Lins – romanzieri di altissimo profilo che, anche in Italia, dove non sempre si è attenti alla produzione libraria brasiliana, godono di una buona stampa.
Infine, c’è la generazione dei «nuovissimi» – nati quasi tutti negli anni settanta – in cui emergono, riconoscibili, due dorsali di scrittura che per comodità possiamo definire «femminile» e «marginal». Pur nel solco alternativo della tradizione letteraria nazionale, i romanzi di donne-scrittrici come Adriana Lisboa, Veronica Stigger, Andréa del Fuego, Tatiana Salem Levy (per citare solo quelle presenti a Francoforte) stanno contribuendo a riconfigurare un certo immaginario femminile, promuovendo la decostruzione del carattere discriminatorio delle ideologie del genere.
Alle voci di scrittori come Marcelino Freire o Ferrez spetta invece il compito di raccontare, nell’oralità e gergalità di un portoghese triturato da secoli di subalternità anche linguistiche, il crudo campo di battaglia quotidiano delle favelas: scrivere del confine, dal confine è una rivendicazione e un diritto. Dunque, davvero, il Brasile è oggi più che mai un «paese pieno di voci», il cui strano destino continua quello di un continente fatto di «parti senza un tutto».