Un pool di cinque giudici della Corte suprema indiana ha pronunciato una sentenza storica in favore della depenalizzazione dell’omosessualità in India, a coronamento di una battaglia legale che – tra alti e bassi – ha impegnato la comunità Lgbtq+ indiana per ben 17 anni. Indu Malhotra, unica donna nel pool di giudici, leggendo la propria spiegazione del verdetto ha dichiarato: «La Storia deve delle scuse ai membri di questa comunità e alle loro famiglie, per il ritardo nella correzione dell’ignominia e dell’ostracismo che hanno dovuto subire per secoli. I membri di questa comunità sono stati costretti a vivere una vita piena di paura di rappresaglie e persecuzioni, per colpa dell’ignoranza della maggioranza nel riconoscere l’omosessualità come una condizione completamente naturale, parte della varietà della sessualità umana».

DAL 2001, CON UNA PETIZIONE sostenuta dalla ong Naz Foundation, la comunità Lgbtq+ ha cercato di far stralciare dalla legge di epoca coloniale in materia di «crimini contro l’ordine naturale» – la legge 377, promulgata nel 1861 – la criminalizzazione dei rapporti sessuali tra individui consenzienti dello stesso, in virtù dei principi costituzionali a garanzia del diritto ad un equo trattamento, al non essere discriminati e alla salvaguardia della vita di ogni cittadino indiano.

Ai sensi della legge 377, chiunque indulgesse in attività sessuali «contro natura», in India rischiava pene detentive dai 10 anni all’ergastolo. Seppur raramente applicata nel sistema giudiziario indiano, la sola presenza della legge 377 nel codice ha permesso decenni di minacce, ricatti, estorsioni e discriminazione nei confronti della comunità Lgbt+ indiana, a tutti gli effetti considerata composta da cittadini di serie b. Nonostante una prima vittoria legale nel 2006, quando l’Alta Corte di Delhi stralciò la 377 per incostituzionalità, nel 2012 la Corte suprema accolse i ricorsi provenienti da privati cittadini e organizzazioni di stampo religioso, riportando in vigore la legge appellandosi a una peculiarità procedurale: abrogare la 377, dissero i giudici all’epoca, è una decisione che deve prendere il parlamento, non un tribunale. Le sparute iniziative legislative intraprese in tal senso da deputati indiani negli ultimi anni – l’ultima, nel 2015, dal deputato dell’Indian National Congress Shashi Tahroor, contro le indicazioni del proprio partito – si sono sistematicamente scontrate con maggioranze plebiscitarie contro l’abrogazione della 377.

NEL 2016, CINQUE PERSONALITÀ influenti della comunità Lgbtq+ indiana decisero di «metterci la faccia», inviando cinque petizioni alla Corte suprema per l’abolizione del reato di sesso consenziente tra maggiorenni omosessuali. Si tratta di N.S. Johar (danzatore di classica indiana «bharatnatyam»), Sunil Mehra (giornalista, compagno di Johar da vent’anni), Ritu Dalmia (fondatrice della catena di ristoranti italiani «Diva»), Aman Nath (imprenditore impegnato nel turismo e tra i fondatori del celebre Indian National Trust for Art and Cultural Heritage) e Ayesha Kapur (imprenditrice formatasi negli Usa).

L’esposizione mediatica garantita dalla notorietà dei cinque, unito al continuo lavoro di sensibilizzazione portato avanti da migliaia di attivisti in tutto il Paese, sono riusciti a far riaprire il caso in anni considerati particolarmente bui dagli ambienti progressisti indiani; anni in cui, sotto l’amministrazione di Narendra Modi vicina all’ultrainduismo extraparlamentare, gli spazi garantiti ai diritti delle minoranze religiose ed etniche, alla libertà d’espressione e al dissenso in India si sono fatti sempre più ristretti, facendo temere al movimento Lgbtq+ locale una ennesima sconfitta.

CONTRO OGNI PREVISIONE, invece, le prospettive di successo hanno iniziato a prendere quota lo scorso mese di luglio, quando in un affidavit consegnato ai giudici della Corte suprema il governo Modi ha ufficialmente annunciato di voler «lasciare alla saggezza della Corte» la decisione circa la costituzionalità della 377, di fatto spianando la strada alla sentenza storica di ieri.

MENTRE NUMEROSI membri della comunità Lgbtq+ hanno festeggiato in strada nelle principali megalopoli del subcontinente e i social network si riempivano di felicitazioni per il traguardo raggiunto dalla democrazia indiana, le agenzie di stampa restituivano anche opinioni più in linea con la «pancia del Paese».

SUBRAMANIAM SWAMY, membro del Bharatiya Janata Party (Bjp) di Modi e fervente induista, si è augurato che presto un nuovo pool di giudici possa ribaltare la sentenza, poiché l’omosessualità è «praticamente una malattia genetica, come quando qualcuno ha sei dita».

Dello stesso tenore, un comunicato dell’organizzazione musulmana Jamaat-e-Islami Hind: «depenalizzare l’omosessualità e permettere il matrimonio omosessuale [ancora non permesso in India, ndr] distruggerà il sistema della famiglia e la naturale evoluzione e il progresso della razza umana». Per tutti gli altri, ieri è stato un atteso giorno di festa. E un importante segnale di speranza nell’India di domani.