Celebrare le ricorrenze è un’arte difficile da esercitare: presuppone infatti una buona dose di intelligenza e di amore alla storia. È quindi con una certa gratitudine che ci si accosta alla nuova edizione de Il gran teatro montano di Giovanni Testori, curata da Giovanni Agosti e pubblicata da Feltrinelli (pp. 416, euro 30,00), a cinquant’anni dalla prima uscita del testo per i tipi della prestigiosa casa editrice milanese.
Il libro ha una struttura composita: lo scritto di Testori è incorniciato da due brevi saggi di Giovanni Agosti che mirano il primo a inquadrare il volume nel contesto in cui nacque, sia dal punto di vista geo-storico: la Milano della metà degli anni sessanta, che da quello biografico-autoriale: il percorso di Testori scrittore al momento della sua stesura. Il secondo, di carattere più propriamente storico-artistico, dettaglia invece la portata del Gran Teatro testoriano nel circuito della storia dell’arte.
La cornice di Agosti non racchiude però solo il Gran teatro montano, ma anche una serie di altri scritti di Giovanni Testori sul pittore valsesiano a cui quel volume era dedicato, Gaudenzio Ferrari (Valduggia, 1475-80 circa – Milano, 1546), autore nonché ideatore di gran parte delle cappelle del Sacro Monte di Varallo, secondo il ruolo fondamentale individuato da Testori nel volume, che appunto a quel monumentale capolavoro fin dal titolo era dedicato. Si tratta di «Materiali» che formano una sorta di controcanto al libro uscito nel 1965, documentandone da una parte la genesi, dall’altra gli sviluppi del pensiero dell’autore.
Sia dal punto di vista editoriale che da quello critico l’operazione è riuscitissima, e certamente, se si vorrà approfondire la figura di Gaudenzio o l’approccio di Testori alla sua arte, non si potrà fare a meno di consultare questo nuovo testo che mette in piena luce il contributo portentoso di Giovanni Testori alla conoscenza di questo grande artista e della sua opera, fornendo al contempo i necessari strumenti di lavoro per una personale verifica.
E insomma, così riproposto, il Gran teatro alla fine si ricomincia prima a sfogliarlo, pensando tutto sommato di conoscerlo, e poi a leggerlo, catturati, sopraffatti dalla scrittura di Testori e dal suo amore per l’arte e, oserei dire, per la vita.
Il filo conduttore del testo è il repêchage di Gaudenzio Ferrari, un artista nel 1965 ben poco noto alla critica e quasi per nulla al pubblico. È Testori stesso a dichiarare le intenzioni del libro in apertura: «Sua ambizione è se mai di muoversi il più possibile d’amore per un Maestro che solo la lunga e insensata genuflessione alle superbe mitologie rinascimentali trattiene ancora dall’entrare nel regno da lui meritatissimo, dei più grandi artisti che l’Italia abbia avuto; e con l’Italia l’intera Europa».
Per far questo l’autore confessa di avere avuto in animo una monografia sull’artista, con tanto di catalogo scientifico e accurate schede, e in ultimo di avere invece abdicato in favore di una serie di saggi in parte noti, e in parte inediti, scritti tra il 1956, anno della mostra dedicata a Gaudenzio al Museo Borgogna di Vercelli, le cui schede sono infatti qui raccolte nei «Materiali», e il 1964, quando, come giustamente nota la cornice di Agosti, Testori era stato ormai travolto dallo scandalo suscitato dai suoi Misteri di Milano e in particolare da L’Arialda.
Corre l’obbligo di chiedersi se il Gran teatro montano fu una scelta riuscita. A cinquant’anni di distanza che posto occupa Gaudenzio nella storia dell’arte italiana ed europea, e lo stesso approccio di Testori alla storia dell’arte ha ancora corso e una qualche valenza?
La copertina della nuova edizione è in proposito parlante. Si tratta di due dettagli molto simili della statua del Buon Ladrone nella cappella della Crocifissione, la XXXVIII del Sacro Monte di Varallo: uno tratto dalla prima edizione del Gran teatro montano, l’altro fornito dall’Archivio della Riserva del Sacro Monte di Varallo dopo il restauro. L’immagine più antica è in bianco e nero, densa di ombre, e risulta di una drammaticità e di un pathos che troviamo trascolorati in quella recente, più nitida e svelata.
Per chi si occupa di storia dell’arte lombarda la risposta alla prima domanda è infatti limpida come l’immagine dopo il restauro. L’arte di Gaudenzio è ormai universalmente riconosciuta come uno dei cardini della pittura e scultura nel Rinascimento in Italia Settentrionale. Sotto questo profilo, quanto mai interessante risulta la riproposta nell’Appendice dedicata ai «Materiali» dell’introduzione scritta da Testori alla straordinaria mostra sui Cartoni di Gaudenzio curata da Giovanni Romano nel 1982 e allestita all’Accademia Albertina di Torino. Quell’esposizione, sulle cui schede, esemplari anche dal punto di vista metodologico, si è esercitata buona parte degli studenti milanesi, costituì un vero punto di svolta nel determinare il portato di Gaudenzio nella pittura piemontese e lombarda del Cinquecento. Ebbene, essa non avrebbe ragion d’essere senza il contributo del Gran Teatro Montano.
Più difficile è stabilire se Gaudenzio sia entrato davvero nel circuito della storia dell’arte italiana. Non mi pare infatti che il suo nome torni ancora con la meritata insistenza nelle trattazioni sul seguito dei grandi maestri del Cinquecento concepite al di sotto del Po, o al di là delle Alpi. Eppure Gaudenzio fu per Testori la chiave di lettura, il grimaldello con cui disserrare un’intera stagione stilistica che dal maestro valsesiano giungerà fino a Tanzio da Varallo e al Pianca. E, a dirla tutta, anche dopo aver capito che Tanzio rimase al Sud, e in particolare a Napoli più a lungo del previsto, che divenne pittore nella bottega del Cavalier d’Arpino e non solo in quella valsesiana del fratello Melchiorre, non si può negare che rientrato in patria, egli darà il meglio di sé al Sacro Monte, guardando e riguardando Gaudenzio.
A questo proposito molto opportunamente la prima cornice di Agosti colloca il volume di Testori nel contesto del suo rapporto fecondo e proficuo quant’altri mai con il grande Roberto Longhi. E, se si tiene conto che nel 1953 Testori, insieme ad Andreina Griseri, collaborava alla mostra milanese di Longhi La pittura della realtà in Lombardia, si capisce come il Gran teatro montano o il Palinsesto valsesiano siano nati dalla costola dell’esperienza del critico piemontese. Longhi scriveva nell’introduzione a quell’esposizione: «Anche dentro l’aureo Cinquecento è difficile negare la coesistenza di due opposti: da un lato una maniera sempre più artificiale ed astraente dal dato di natura; dall’altro, ed ecco qui esposto l’esempio fondamentale di Moroni, una semplicità accostante, una penetrante attenzione, una certa calma fiducia di poter esprimere direttamente, senza mediazioni stilizzanti, la ‘realtà’ che sta intorno». A questa «calma fiducia» sembra improntata anche la poetica dell’amato, «familiare» Gaudenzio, così familiare che il Gran teatro montano fu posto nella bara del padre dello scrittore, sul cui comodino il libro era rimasto dal giorno della sua uscita. Come Longhi individuò in un rapporto con la realtà senza mediazione la cifra della parlata lombarda della pittura di due secoli, così anche Testori riuscì a rintracciare il segno gaudenziano nei pittori piemontesi che lo seguirono, e soprattutto che si avvicendarono al Sacro Monte.
È in questo poderoso connubio tra filologia e lettura sintetica di una stagione figurativa che trascolora in stagione dell’anima, che è racchiuso il segreto di una personalità critica come quella di Longhi dalla quale, non a caso, Testori si sentì totalmente corrisposto. La risposta alla domanda sulla bontà e l’attualità della metodologia testoriana non può dunque non fare i conti da una parte con i suoi grandi, insuperati frutti, dall’altra con il bisogno di sintesi che aleggia oggi in tutta la più autentica storia dell’arte, certamente in quella italiana. «Stringer di più sulla filologia?» si chiede Testori nel 1982: «Già altri qui l’ha fatto (…). A noi spetta, forse, come diritto e insieme come dovere, stringere sul cuore che si fa segno; disegno; matassa». Nel Gran teatro montano egli centrò senza dubbio l’obiettivo come in talune altre occasioni, a dire il vero (la mostra su Francesco Cairo, ad esempio), fino a travalicarlo. L’amore viscerale per la dolcezza infinita di Gaudenzio «che si fa carne» respira tutta di un acuto, viscerale bisogno che questa carne non abbia una fine, che l’ultima parola non sia un diniego: «Là sì, oh là v’è come un amore antico e non più solo dei sensi, ma della vita intera! Salvarla, io non so come; ma salvarla, questa povera vita di morte; salvarla …», una quarta di copertina che da sola varrebbe la pubblicazione di questa nuova edizione del gran teatro testoriano.