Incontrare qualcuno come William Klein è sicuramente una bella occasione, non capita tutti i giorni.

L’uomo è affabile, ci concede lo stesso tempo di chi ci ha preceduti – Rai e Vogue Italia (nessuna traccia della stampa generalista su carta, quella dei quotidiani) – e si dilunga con noi con quel tono divertito che lo ha spesso contraddistinto nel corso degli anni («Esistono ancora giornali comunisti?», ha rotto il ghiaccio più o meno così, per dire).

Quella che segue è la rielaborazione dell’intervista, avvenuta prima della prima della mostra milanese.

Nella traduzione si è cercata la restituzione del tono colloquiale, laddove possibile.

Chi è William Klein? Lo chiediamo perché lei è un pittore, e fotografo, e filmmaker…

Sono un artista. E penso che l’artista, oggi, debba essere fotografo, pittore, regista, penso sia normale. Tutte queste cose sono ora a portata di mano, voglio dire si può fare tutto. Essere per esempio solo un pittore non è abbastanza.

Ci può parlare di chi l’ha influenzata nel suo lavoro?

Fernand Léger. Lui era qualcuno che, effettivamente, personificava quello che per me dovrebbe essere un artista. Aveva interesse nella collettività. Fece pitture murali, invitava artisti nel suo atelier. Io andavo al suo studio – ho passato del tempo lì – e lui diceva a tutti questi giovani pittori e giovani pittrici che volevano diventare artisti di trovare qualcosa riguardante la vita e l’arte. Quindi, ecco, mi chiedete qual’è la mia eredità? È lui come modello, dal momento che – appunto – incarnava quello che un artista dovrebbe essere, qualcuno non confinato in un singolo campo.

E Chris Marker? Anche lui sappiamo che è stato importante per il vostro lavoro, nello specifico per il libro su New York.

Quando ho scattato le fotografie di New York e le ho mostrate ad un editor di base lì, questo mi rispose, «Queste fotografie fanno cagare! Non possiamo pubblicarle, sono davvero anti-americane». Quindi non ebbi fortuna nel pubblicare il libro immediatamente in loco.

Detto questo, avevo visto dei libri pubblicati in Francia, la serie dei tascabili chiamata Petite Planète: erano libri di viaggio, libri pensati per giovani (con argomenti tipo, «Come sopravvivere a Istanbul», «Come sopravvivere in Norvegia»). Così ho pensato che le persone dietro a questo progetto dovessero essere quelle con cui dovevo entrare in contatto, e quindi chiamai la casa editrice Seuil di Parigi per parlare con Marker, ideatore della collana. Gli mostrai le mie foto di New York, e lui mi disse che le avrebbero pubblicate come libro a Seuil, come avrei voluto. E aggiunse, «Se non lo pubblicano, chiudo con questa casa editrice!», perché era diventato nervoso con lo stare lì e ogni occasione era buona per minacciarli che poteva uscire. Ma in casa editrice erano molto legati a lui, perché era sempre presente – rispondeva per esempio a chi mandava foto come me – e perché, voglio dire, sapevano di avere Chris Marker. Era un giovane scrittore, aveva fatto già film – Dimanche à Pekin (1956) e Lettre de Sibérie (1957) – e quindi ecco, lui fu qualcuno che mi aiutò agli inizi. Il mio primo libro fu quindi pubblicato da Seuil grazie a lui, con sottotitolo «Album Petite Planète 1».

Chris Marker è stato effettivamente mio amico e un altro modello che ha personificato, alla fine, quello che dovrebbe essere un artista.

A proposito dei suoi lavori fotografici su determinate città, al di là di quelli più noti – diciamo: su New York e su Parigi – ci vuole dire qualcosa degli altri?

Per esempio qualcosa su quello su Mosca?

Il libro su Mosca fu una specie di incidente, casualità.

Ero interessato a fotografare il mondo, e quindi anche la Russia del periodo del comunismo. Ora, io non ero un turista, un osservatore-passante, ero e sono un fotografo. Quindi volevo trasformare quanto vedevo in oggetti, fotografie. Così quando ho avuto l’opportunità di poter andare in Russia, a Mosca, ho pensato che sì, avrei potuto fare un libro.

Qual’è la sua opinione sulla «street photography» oggi?

La strada è molto semplicemente dove le cose accadono. È dramma, spettacolo, grafica, sorpresa, e quindi ci sono un sacco di cose che puoi dire fotografando la strada.

E sul coinvolgimento politico per un artista?

Penso che se uno ha l’opportunità di esprimersi in diversi campi – grafica, fotografia, altri media – lo stesso o la stessa dovrebbe fare in modo di far seguire i fatti alle parole [Klein gioca con i modi di dire, dicendo put the talent where your mouth is col riferimento alla frase idiomatica put the money where your mouth is, n.d.t.].

Penso che se tu sei interessato alla vita devi renderti conto dall’aspetto «pubblico» della fotografia, del cinema e così via. Penso sia normale, anzi: indispensabile.

Parliamo ora dei suoi film.

Ci piaceva iniziare con una nota, e cioè quella per cui nei suoi film di sport – pensiamo a quello su M. Ali ma anche a quello sul Roland Garros – lei si sia sempre tenuto dentro l’approccio documentario, cosa che invece non accade quando ha filmato altro.

Si vero ma sapete, il mio film su Ali non è un film sullo sport, è un film su una persona che era un boxeur e che aveva molte cose da dire.

Ci dica allora del suo Ali.

Lui aveva incontrato Malcom X, una guida spirituale, uno che aveva una visione dell’America e della vita in generale.

Diciamo che la sua grande tragedia sono stati quei «musulmani neri» di merda che hanno portato Malcom via da lui. Se Ali fosse stato in grado di continuare sotto la guida di Malcom X sarebbe stato un Ali differente, sarebbe stato una cosa meravigliosa. Sapete, l’America non ha mai considerato il pugile secondo i suoi stessi termini.

Io ho fatto un film in Algeri, ho filmato il festival panafricano (1969), e lì ho visto danze e artisti e attori e attrici, gente che veniva dalla giungla, piccole comunità, e tutti loro conoscevano Ali! Era la persona più famosa nel mondo. Quando lui conquistò il titolo di campione, tutti quanti rimasero colpiti dal ruolo che quest’uomo esercitava come simbolo e come portavoce a quel tempo. C’è poi una ulteriore cosa da dire che l’America non capì di Ali, e cioè che lui poteva davvero diventare un ambasciatore per il mondo, per l’Africa, per tutto. Avrebbe potuto essere così tante cose e in effetti fu tante cose – pensate al fatto che, certamente, era contro l’avidità delle strutture di potere.

Era un genio.

Ho visto i funerali di Ali in televisione, e ho visto gente di colore uscire dalle loro case per porre fiori alla limousine che portava la bara. Ho visto una combinazione di amore e rispetto, perché… insomma, queste persone non hanno mai portato fiori nella loro vita! Mentre in questo caso, invece, uscivano dalle loro case – gente gigantesca che aveva fiori nelle proprie mani, fiori per la bara che ponevano in modo molto accurato. Cioè non li gettavano, come invece capita in molti altri casi. Li posavano sul tetto dell’auto. C’è stato qualcosa che ha toccato le menti e i cuori di tanta gente.

Quindi si, poteva avere un grande ruolo – pensa poi alla malattia che lo ha colpito – ma in sostanza si, ha esercitato un ruolo importante per quello che è comunque stato.

Cambiando film, ci puoi dire invece qualcosa su The French?

Io sono sempre stato un fan del tennis, diciamo ossessivo. Sono anche stato un buon giocatore.

Ah si? [Alla mia esclamazione interrogativa mi rivolge uno sguardo sornione, tra il sorpreso e l’ironico, ma forse – alla fine – solo compiaciuto]

Certo, ho anche vinto. Ero diciamo molto dentro l’idea di angoscia e paura che c’è nel tennis. Giocare un torneo così – il Roland Garros – è davvero una cosa che ti rovina, e quindi mi sono relazionato a questo stando vicino agli eroi che conoscevo. Volevo essere vicino a gente come Borg, McEnroe, e altri.

A questo punto, se possiamo chiedere: chi è il suo tennista preferito?

Yannick Noah.

Perché?

L’idea di lui, un piccolo bambino a piedi nudi in Camerun che colpisce una pallina da tennis, che è scoperto da Arthur Ashe – per me anche Ashe è un eroe, vinse Wimbledon sconfiggendo Connors – è qualcosa di bello.

Noah vinse poi il Roland Garros, uno dei pochi tennisti francesi.

Ultima domanda. Qual’è tra i film da lei realizzati il suo preferito?

Penso sia quello su Muhammad Ali!

[Risate di entrambi]

Amo Muhammad Ali. Voglio dire, come fai a non avvicinarti a un personaggio del genere – uno che è un nero, che è un campione mondiale, che ha una rilevanza storica – se non facendo un film?

Voglio dire, dopotutto, ho fatto questo film e sono stato vicino a lui ma non si è mai parlato nello stesso linguaggio. Lui era questo ragazzo nero, cresciuto a Louisville, e non era possibile per un ragazzino ebreo di New York essere un amico [buddy, n.d.t.] di Ali. Non era possibile. Potevi essere accettato da lui, ma non ci diventavi amico.