Želimir Žilnik è l’ultimo grande surfista di quell’onda (nera) che dagli anni ’60 ha stravolto anche il cinema jugoslavo grazie alle idee, agli slanci e ai talenti di un gruppo di giovani cineasti (tra cui Dusan Makavejev, Zivojin Pavlovic, Mathiaz Klopcic…). Col suo primo lungometraggio, Rani Radovi (Primo impiego), nel 1969 («provocato» – direbbe lui – dall’occupazione sovietica di Praga), ha vinto l’Orso d’oro a Berlino. Da lì la sua strada è stata tutta in salita, in continua ricerca di un cinema non consolatorio e non riconciliato, dissestato, dissestante. Dall’incredibile Paradies, girato in Germania nel ’76, che gli è valso il sequestro della pellicola e l’espulsione dal paese la mattina seguente la prima proiezione pubblica perché accusato di fiancheggiare la RAF, ai molti film realizzati per la tv negli anni ’80, a quelli danzanti in bilico tra documentario e messa in scena che hanno segnato gli ultimi 25 anni (da Tito per la seconda volta tra i serbi alla folgorante serie dedicata a Kenedi): di tutta la ricchissima filmografia di Žilnik, uno dei massimi cineasti della sua generazione, in Italia (con l’eccezione di Trieste) non si sa quasi nulla.

Il suo furore dolce, la sua eccentricità, si articolano in una dialettica, questa sì, furiosa, precisa e precisamente furiosa, ma capace di leggerezza e di grande ironia. Il bersaglio della sua critica (nei molti cambi di nomi e di statuti del potere) è rimasto invariato (e il presente italico purtroppo lo rilancia, specie in relazione ai suoi ultimi due film, Logbook Serbistan e The Most Beautiful Country In The World, entrambi in proiezione nell’ambito della mostra ilmondoinfine: vivere tra le rovine alla Galleria Nazionale di Roma il 20 e il 23 gennaio). Il suo cinema sembra parlare la lingua di Rossellini pronunciata da Dziga Vertov e John Ford insieme, all’unisono, dissonanti.

C’è un evidente collegamento tra Logbook Serbistan e The Most Beautiful Country In The World. Puoi raccontarci la genesi dei due film?

Nel primo film abbiamo filmato migranti lungo la rotta balcanica. Passare, continuare, attraversare illegalmente i confini. Cercando asilo, ma sapendo che non lo otterranno in Serbia. Sono molto ben informati, usano i loro telefoni per scoprire strade, trasporti, pattuglie di polizia. Sanno dell’elevata disoccupazione della Serbia. Anche se fossero stati accettati, non sarebbero stati in grado di aiutare le loro famiglie o portarle qui. Per noi era importante ascoltare e registrare ciò che pensavano, le ragioni del loro migrare, lo sfruttamento, le guerre e le dittature da cui stavano scappando. Abbiamo documentato l’interazione dei migranti con le popolazioni locali nelle campagne e nelle città attraverso cui hanno viaggiato. Siamo rimasti sorpresi dal buon umore, dall’apertura. Non ci aspettavamo il ritorno dei ricordi del socialismo, quando si tringevano relazioni economiche e politiche con le persone liberate dal colonialismo. Tutto quello che abbiamo visto era diverso da quanto riportato dai media mainstream, dove i migranti vengono presentati come criminali.
In The Most Beautiful Country In The World, girato l’anno scorso in Austria, l’attenzione è diversa: le persone sono arrivate dove volevano essere, con l’intenzione di rimanerci. Sono stati accettati dall’Unione Europea a braccia aperte, in paesi che avevano un buon piano per l’accettazione, i controlli, il supporto medico e l’alloggio. Sono state coinvolte un gran numero di ONG e persone singole.

Pensavo: nei paesi dell’UE non c’è una grande forza lavoro. Secondo l’analisi parlamentare tedesca, nei prossimi dieci anni sarà necessario avere 15 milioni di lavoratori stranieri, in modo che i fondi pensionistici per i lavoratori esistenti possano essere garantiti. Tutti sanno che la maggior parte delle risorse per i beni e le risorse energetiche in Europa provengono dall’Africa e dal Medio Oriente. Mi sembra logico che il mercato dell’UE debba essere aperto a una forza lavoro giovane e istruita. In questo modo crea le basi per la comprensione e la pace nel futuro. Nelle prime due settimane di preparazione di The Most Beautiful Country ho incontrato molti giovani migranti, donne e uomini, che in un anno o meno hanno imparato il tedesco o l’inglese. Si sono orientati verso le grandi città, adattandosi al cibo, alla musica e agli sport locali. Per questo ho voluto fare un film sull’europeizzazione dei migranti e su ciò che c’è lungo il loro cammino.

Il modo in cui usi la realtà realizzando una «finzione» è piuttosto unico, anche se le due parti sono mescolate dall’inizio del cinema (pensa ai Fratelli Lumière, all’Uscita di fabbrica, che è una messa in scena…). Come porti avanti questo modo di lavorare?

Non giriamo i nostri documentari con la telecamera nascosta. Ci presentiamo e spieghiamo qual è la nostra intenzione. Chiediamo a chi è interessato di lavorare con noi. Il tema della migrazione è molto scomodo, stressante. È un rischio fuggire dall’esercito, lasciare il paese, i parenti, i bambini. Trovare salvezza o difficoltà, malattia e morte. Quando parliamo con venti potenziali partecipanti, solo 3 o 4 accetteranno di essere nel film; un paio di loro vorranno parlare ma non in camera.

I partecipanti a The Most Beautiful Country vivono legalmente in Austria. Hanno l’obbligo di frequentare corsi di lingua, educarsi o imparare un mestiere; alcuni di loro hanno il permesso di lavorare. Abbiamo girato durante i loro giorni liberi. La sceneggiatura del film l’ho scritta partendo dalle conversazioni con i partecipanti. Alcuni di loro hanno accettato di reinterpretare le loro storie, altri hanno chiesto di recitare, ma con un nome diverso. È una docu-fiction.
Ho scoperto che hanno una straordinaria memoria per il dialogo, che definisce l’aspetto visivo del film. Probabilmente a causa delle loro tradizioni di cultura orale. Potrebbero memorizzare dialoghi lunghi fino a 4-5 minuti. Senza errori. In due o tre ore abbiamo girato sequenze che con degli attori professionisti avremmo fatto in un giorno o due.

Il primo giorno di riprese il direttore della fotografia era preoccupato, si avvicinò e mi chiese come inquadrare la scena quando non si sa dove sia l’accento drammatico del testo, poiché non parliamo Arabo o Dari. Avevamo bisogno di usare il linguaggio cinematografico della vecchia scuola: quello dei Lumière e del primo Chaplin: macchina fotografica fissa e i partecipanti di fronte, a muoversi, a vivere.

Nei tuoi film i protagonisti non smettono mai di andare avanti, il loro viaggio sembra aperto a tutto ciò che può accadere e cambiare le cose (come La porta aperta di Jean Renoir). Cosa cerchi nelle persone che incontri e con cui fai film?

Seleziono i partecipanti cercando l’autenticità. Parlo con loro. Il più delle volte scelgo coloro che rispetto, che combattono attraverso la vita e le loro opinioni. Con molti di loro rimaniamo amici. Quando mi chiedono per che tipo di pubblico stiamo facendo il film, dico che lo stiamo facendo per loro. Lo schermo è un podio dove puoi parlare al pubblico. Allo stesso modo, stiamo lavorando per noi dietro la camera, che incontriamo un segmento di realtà sconosciuta. Dopo le riprese guardiamo il girato insieme. Non vedo i partecipanti nel film come oggetti ma come co-creatori.