«Lei è condannato alla fulazione per essere un agente della menzogna televisiva e per aver vampirizzato Nicolas Ray per scopi pornoetici. Prima di essere fucilato sarà dotato di un parrucchino verde. Come sottofondo musicale sarà trasmesso Messiaen o Scelsi, Berio o Shostakovich. Lei può scegliere. Abbiamo già colpito Straub».
È una delle diverse lettere minatorie che Stefano deponeva nella mia cassetta delle lettere, a firma «Azione Rivoluzionaria Gruppo di Fuoco Alfred Jarry». Altre volte, invece, si trattava di pacchi di poesie stralunate, tragiche e allegre, di libretti di disegni, fantasie sfrenate di simboli e corpi intrecciati o Cd con le sue musiche acide e stranite.
Tutte le volte che ci incontravamo, al solito angolo tra via dei Cappellari e Campo de’ Fiori, restavamo a lungo a discutere di ogni argomento possibile per il piacere di essere in disaccordo su tutto. Già dal ’68, quando partecipava alle manifestazioni inalberando cartelli di fuorvianti poesie visive. Quel che mi incuriosiva e ammiravo, in lui, era il suo essere genuinamente e «naturalmente» anarchico; troppo schivo per l’ideologia e la militanza ma capace di far vivere il suo spirito sfrontatamente libertario in ogni verso, in ogni disegno, nel suo modo di girare il mondo, di suonare il clarone, di sperimentare vapori di erbe e radici, o magari fare la spesa vestito da donna tra le risate e i complimenti delle fruttarole, o saltellare in mutande di ramo in ramo sugli alberi dell’Orto Botanico.
Se aveva una sua religione, al di là di esotismi tanto misterici quanto passeggeri, era quella della Natura; una natura adorata al limite del feticismo («… ho catturato un sasso dalla bella forma ma ho percepito il suo dispiacere/ e la sua maledizione: diventare il suo secondino»).
Il Viaggio era l’unico rituale rigorosamente seguito da Stefano: viaggi caleidoscopici seduto nella sua stanza o sul tetto della casa in via Cappellari alternati, e talvolta intrecciati, a viaggi altrettanto spericolati tra boschi, isole, torrenti e villaggi di mezzo mondo «… a piedi nudi, saltando di roccia in roccia/fino a sbattere nel rosso sangue la coscienza».
Viaggi in cui si abbandonava alla meraviglia dell’imprevisto, della scoperta, «lì dove non si sa più dove si è andati e si è perduta la via del ritorno». Lì dove il
«Pifferaio travolto dalle sue creature» poteva finalmente camminare nudo a quattro zampe, leggere gli alfabeti delle foglie, la scrittura delle orme dei gabbiani, ballare coi suoi fantasmi, il topo venusiano, il maggiolino matto, la cavalletta col paracadute, il ragnetto Giacomino, l’aquilotto in Montgomery.
La sentenza di fucilazione nei miei riguardi era motivata da una lunga sequenza video in cui Stefano ballicchiava, cantava in falsetto, roteava le braccia spennellando una tela. Rivedendosi s’era stupito, s’era sdegnato, aveva rifiutato di riconoscersi. Arrivò infatti un’ulteriore lettera chiarificatrice: «Che cavolo di film vuoi fare su di me, se il cinema è necrofilia. Non puoi entrare nella mia essenza imprendibile, che non è quel burattino esteriore che vorresti inchiodare con la tua teschio-horror- macchina». S’era visto invecchiato.
A lui, che della natura s’era fatto consanguineo, complice, amante, doveva essere sembrata un’offesa personale, un segno d’ingratitudine, un vero e proprio tradimento. Invecchiare non era nei patti. Morire, poi…! Eppure, l’ultima volta che ci siamo incontrati – il giorno successivo a un’ennesima diatriba sulla musica- m’aveva portato in regalo un libro, Angeli Minori di Antoine V olodine, e aveva voluto leggermene una frase, dall’introduzione: «Chiamo narrat dei brevi brani musicali la cui principale ragione d’essere è proprio la musica, ma anche luoghi in cui coloro che amo possono riposarsi un istante prima di riprendere il cammino verso il nulla…».

 

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