Da Shanghai non si esce, casomai la si raggira.

Dovunque ci si diriga, il panorama è più o meno lo stesso.
Ininterrotte distese di palazzi terminati o in via di costruzione, capannoni, fabbriche, Mc Donald’s, centri commerciali e ancora palazzi e Kentucky fried chicken. Questi, grosso modo i pilastri di un arredo peri-urbano che sembra non avere fine. Sono i corridoi urbanizzati, delle non città che si allungano in modo tentacolare a formare macro-aree come quella del delta del fiume azzurro, e che fino a poco tempo fa, rappresentavano il perno della strategia di urbanizzazione di Pechino.

In questo enorme polpo iper-urbanizzato che avviluppa Shanghai, a metà strada con Suzhou, ci si imbatte nella zona economica speciale di Kunshan, una delle innumerevoli ZES che puntellano il territorio cinese, e che ne hanno, in passato, permesso il decollo economico.

L’intera area, nota ai meno anche come «little Taipei», per l’alta concentrazione di aziende taiwanesi presenti, si è guadagnata una serie di riconoscimenti internazionali per le modalità brillanti con le quali ha gestito il proprio sviluppo urbano. Titoli bizzarri come «National Hygiene City» o il roboante «National Model City of Environment Protection and the National Model Zone of Ecology», fanno sospettare che, chi li ha conferiti, non sia mai passato da queste parti.

Ed è proprio qui che sono venuta a trovare un’amica cinese, a vedere come e dove vive, quando mi propone:

«Andiamo, ti porto a vedere un bel posto!»

Il concetto di bello è un punto dolente del rapporto con le mie controparti locali. Nulla di grave, solo che di rado le nostre rispettive estetiche convergono, e quando lo fanno, è per ragioni diverse. Ma sono tranquilla, in caso di bisogno, posso sempre attingere a categorie accessorie quali: interessante, singolare, istruttivo e il sempreverde divertente, quest’ultima senza la quale in Cina, e ovunque al mondo, non si campa.

Ma per quello che mi aspetta non ci sono aggettivi.
Entriamo in un piccolo parco, c’è un’imponente costruzione che all’ingresso ospita alcune sculture con un’aria vagamente familiare.
Mi ritrovo in un padiglione immenso diviso in due sezioni.
Non bisogna essere esperti d’arte, per riconoscere tra le sculture di donne indolenti e di enormi animali, tra le scalinate ellittiche e le bizzarrie murarie, tutto in cemento, vetro, piastrelle e pezzi di ferro, l’inconfondibile stile di Gaudì.

Immaginate una via di mezzo tra le mattanze architettoniche del parco Güell e le sperimentazioni della Sagrada Familia, un angolo di modernismo catalano, in un non luogo, piazzato all’avamposto tra una non città e la successiva non città.

Mi guardo intorno incredula, domando, cerco di capire.

Dai rari visitatori, ricevo solo sorrisi imbarazzati. Gli inservienti ne sanno meno di me.

All’apparenza, un auditorium, centro commerciale e luogo ricreativo, nelle intercapedini dei lunghi corridoi ci sono spazi per ristoranti, dismessi da tempo e di quelli che avrebbero dovuto essere dei negozi.

Di posti strani in Cina ne ho visti. Città modello, sperimentazioni urbanistiche affidate ad architetti stranieri di grido, divertissement per intenditori, ma questo supera ogni immaginazione.

Quando, pochi giorni dopo, mostro le foto che ho scattato a un amico, esperto di avanguardie artistiche cinesi, questo guarda le immagini, mi rivolge uno sguardo obliquo implorante, si porta la mano al cuore e mi pone l’unica domanda che ha senso fare:

«Ma perché?»

Se è vera la leggenda che mi hanno raccontato, che il progetto sarebbe nato dal capriccio di un imprenditore taiwanese, in fondo è una bella cosa. Un sogno contemporaneo che prende forma. Siamo nella terra delle sperimentazioni artistiche, e allora c’è spazio anche per il riccone folgorato sulla strada di Barcellona, o che so l’hongkonghese appassionato di Bauhaus, o il wenzhounese con la fissa della Pop art.

Il pensiero vola subito alle «Città invisibili», libro che tengo sul comodino da mesi, arrivando solo alla prefazione ma che basta perché racconta di come è nata l’opera nella mente di Calvino.
E allora io quest’angolo di città che ho visto la chiamerei Schan Schan.
Nessun rimando erudito per carità, solo il nome della mia amica cinese che quando le rimbalzo la domanda:
«ma perché?»
Mi guarda ridendo e mi risponde.
«Non ne ho la minima idea».