Il 27 novembre 2017, al Vertice sociale tenutosi in Svezia, come proposto dalla Commissione europea, si è siglata una Joint Declaration sul pilastro sociale europeo ad opera dei tre Presidenti del Consiglio, del Parlamento europeo e della stessa Commissione. La dichiarazione contiene un lungo ed articolato preambolo riassuntivo e ricostruttivo di tutti gli avanzamenti compiuti dall’Unione in campo sociale e delle competenze (di varia natura) che questa può vantare nel settore; nella parte finale, il documento spiega inoltre quali siano le ragioni “strategiche” per riprendere un percorso che la crisi economica internazionale (e quella legata all’euro) hanno interrotto. Poste le premesse giuridiche, istituzionali, economiche e sociali, la dichiarazione congiunta enuncia 20 principi (in certi casi anche diritti in senso stretto, cioè pretese con un carattere sufficientemente determinato o determinabile), che l’Unione e gli Stati dovrebbero raggiungere in campo sociale, incentrati su tre assi tematici convergenti: eguaglianza di opportunità e di accesso al mercato del lavoro; eque condizioni di lavoro, protezione ed inclusione sociale. Si tratta di un territorio già in gran parte presidiato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ma si nota uno sforzo nella formulazione di criteri di filosofia pubblica regolativa più ampi ed inclusivi rispetto alla codificazione della Carta (che mira ad un elenco esigibile, in linea di massima, innanzi alle Corti), cui corrisponde, in alcuni casi (ad esempio per il reddito minimo garantito), anche una definizione più precisa del diritto in gioco.

LA DICHIARAZIONE chiude una complessa operazione aperta dal discorso sullo Stato dell’Unione del 2016 del presidente Juncker, con la quale si prometteva di riaprire un dibattito sull’Europa sociale in vista della definizione di un pilastro di diritti e principi, bagaglio comune del cittadino europeo. Seguiva una comunicazione che ha aperto una consultazione nel corso della quale il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione molto coraggiosa (soprattutto nel settore della digital economy, per gli operatori delle piattaforme) nel rivendicare protezioni più forti in campo sociale, secondo una logica di convergenza dei vari modelli nazionali verso un superamento delle politiche di austerity. Il 27 aprile 2017 la Commissione adottava una dichiarazione sul pilastro europeo dei diritti sociali con valore anche di raccomandazione, nella quale si indicavano i venti principi pertinenti, cui accompagnava, come in un gioco di incastri, vari documenti sulle fonti europee del “pilastro”, sulla creazione di un meccanismo di monitoraggio dei (futuri) progressi nella concreta attuazione dei relativi impegni, un documento (del 3 maggio 2017) sul futuro del modello sociale europeo ed, appunto, lo schema della Joint Declaration, infine siglata al vertice di Göteborg. Il primo passo concreto, dal punto di vista legislativo, è stata una proposta di direttiva in materia di conciliazione tempo di vita e di lavoro, alla quale si è aggiunta, più recentemente, una proposta di regolamento relativa alla creazione di un’Agenzia europea per il lavoro, diretta a rafforzare, sul piano operativo, la libera circolazione transfrontaliera dei lavoratori.

È PIUTTOSTO DIFFUSO, e condiviso anche da chi scrive, un certo scetticismo sulla dichiarazione congiunta, che, sebbene si traduca in un testo che ha almeno il merito di sintetizzare ed accorpare attorno a venti meta-principi i pilastri del “modello sociale europeo”, non pare tuttavia in grado di sciogliere il nodo gordiano delle competenze in questo settore, non prefigurando in particolare in capo agli organi dell’Unione – anzitutto in termini di capacità finanziaria – un ruolo definito che consenta di ridurre quei drammatici divari tra le esperienze nazionali, che la governance sovranazionale di questi anni non solo non ha saputo fronteggiare, ma ha addirittura esacerbato. Per essere sintetici, se sino ad oggi i “signori della solidarietà” sono rimasti gli stati (muovendosi la competenza dell’Unione a macchia di leopardo con una serie di esclusioni decisive, come quelle sulle retribuzioni e lo sciopero, e pur dichiarando il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea la politica sociale come sfera di competenza “condivisa”), tali essi rimangono anche alla luce della dichiarazione, in assenza di una strategia definita di interventi legislativi su aspetti cruciali del welfare e dei rapporti lavorativi. Ci si continua ad affidare in sostanza alla buona volontà degli stati, che – forse – potranno in futuro essere “monitorati” più strettamente riguardo all’effettività di alcune protezioni primarie, ma che non verranno certo costretti a “diventare virtuosi” (un caso per tutti, la plateale renitenza italiana sul cruciale fronte della introduzione di una vera misura universalistica di reddito minimo garantito, al di là degli sforzi di potenziamento del REI).

SI SONO IN REALTA’ rivelate infondate le speranze che l’evoluzione dell’Europa sociale potesse essere sostenuta dall’approvazione della Carta di Nizza (che pure comprende tutte le più significative garanzie sociali conosciute in Europa), in virtù di una sua applicazione progressiva da parte dei giudici nazionali sotto la guida della Corte di giustizia. In particolare, la speranza che ciò avrebbe potuto determinare una spinta alla convergenza delle strade nazionali, sotto la forza di una pressione giudiziaria “dal basso” verso soluzioni comuni legislative, si è rivelata infondata. D’altra parte, si ipotizzava che il metodo aperto di coordinamento, formalizzando un dialogo istituzionale di confronto, conoscenza e selezione di best practices per il raggiungimento di obiettivi condivisi, avrebbe portato gli stati, anche nei settori ove mancava una competenza legislativa dell’Unione, ad una convergenza sotto la guida e la sorveglianza della Commissione. La crisi economica (e dell’euro), dal 2008 in poi, ha tuttavia mandato in frantumi quelle speranze, costringendo in particolare gli stati maggiormente indebitati (come l’Italia) a politiche rigoriste di rientro dal deficit che hanno generato, a loro volta, una frattura radicale in campo sociale tra un Sud costretto ai sacrifici (per lo più non ripagati da una effettiva riduzione del debito pubblico) ed un Nord che invece ha potuto conservare i tratti caratteristici dei propri welfare con prestazioni ancora significative.

LA CARTA DI NIZZA, sebbene talvolta invocata dinanzi ai giudici come limite per le politiche di austerity, non ha potuto fronteggiare queste dinamiche: da un lato, per la sua impostazione “tecnica”, che ne prevede l’applicabilità solo rispetto al diritto dell’Unione ed al diritto nazionale purché attuativo del primo (art. 51), e non quindi in via generale; dall’altro lato, perché per le operazioni di salvataggio ad opera del MES la Corte di giustizia ha ritenuto non invocabile la Carta, con l’argomento che si sarebbe di fronte ad una normativa di natura internazionalistica e non euro-unitaria. L’architettura imperfetta, che è alla base del sistema euro, non ha del resto consentito di fronteggiare la crisi con azioni di tipo anticiclico dell’Unione, mentre è mancata una politica di investimenti comuni, anche limitata agli aspetti di effettiva valorizzazione del “capitale umano”. Il metodo aperto è diventato lettera morta, ed i paesi – in particolare quelli colpiti dalla crisi – sono stati lasciati, soprattutto in campo sociale, al loro destino. Ma mentre la risposta sul piano sociale sovranazionale è apparsa debole, se non inesistente, le regole della sorveglianza macro-economica si sono imposte univocamente, generando un diffuso sentimento di sfiducia nei confronti di un’Europa che sanziona e punisce ma non è capace di agire in una logica di solidarietà positiva, sviluppando quella coesione che è premessa – e al tempo stesso fine – del processo di integrazione.

È IN QUESTO SCENARIO che va letta la dichiarazione congiunta e ancor prima la Comunicazione della Commissione europea. Si afferma con una certa solennità che non vi può essere un rilancio del progetto europeo senza rimettere mano, con determinazione e chiarezza, al capitolo sociale dell’Unione in modo che ai cittadini europei vengano offerte tutele idonee in ordine a diritti fondamentali di natura lavoristica e welfaristica. In particolare, la dichiarazione mette in chiaro i principi che dovrebbero ispirare la configurazione di una protezione di base per coloro che operano attraverso la “rete”: essa indica una direzione universalistica ed inclusiva, volta a valorizzare quelle protezioni dei diritti fondamentali, sia sul piano contrattuale che delle protezioni sociali, che esistono in alcuni paesi dell’Unione, dalla garanzia di un salario minimo sino a quella di un reddito minimo.

MA A PARTE QUESTI ASPETTI, è innegabile una notevole genericità di proposte del “pilastro” europeo, non chiarendosi in che termini e con quali passaggi l’attuale capitolo sociale dell’Unione dovrebbe essere trasceso in una dimensione propriamente comune e secondo quale modello di integrazione “solidaristica” degli stati sociali nazionali. Nondimeno, la dichiarazione, ed il suo follow-up (ancora molto modesto), dovrebbero rimettere in agenda l’“Europa sociale”, immagine che ha avuto molta fortuna negli anni successivi al Trattato di Amsterdam e che appare oggi scolorita nella progressiva difficoltà di bilanciare nella dimensione dell’Unione, per dirla con Habermas, le ragioni dell’integrazione sociale con quelle dell’integrazione sistemica del mercato.

Il CONVEGNO ORGANIZZATO dalla Fondazione Basso nella giornata del 9 maggio vuole provocare una discussione aperta e non aprioristica su questo scenario, innanzitutto affrontando le questioni di natura costituzionale sottese alla ipotesi di un welfare paneuropeo o forse più realisticamente di una unione di stati sociali nazionali. Si tratta di questioni raramente affrontate nella loro radicalità e che meritano invece di essere discusse, essendo necessario approfondire il tema del rapporto tra un più inteso ruolo dell’Unione (o soltanto della UEM) in campo sociale e sistemi di welfare nazionali. Si cercherà di riflettere senza pregiudizi sui più rilevanti limiti dell’ordinamento europeo in campo sociale e sul significato che le proposte emerse dal dibattito, precedente e successivo alla dichiarazione, possono avere nel rilanciare un garantismo sociale all’altezza delle grandi trasformazioni dell’ultimo decennio (ci si interrogherà tra l’altro sul ruolo delle parti sociali, sul significato attuale della formula della flexicurity e infine sul nesso tra la democratizzazione e la razionalizzazione del “governo dell’euro” ed un rilancio delle protezioni sociali su scala continentale).

IL CONVEGNO dovrebbe essere anche la base per la costruzione di un osservatorio italiano sul pilastro sociale europeo, che verifichi, passo dopo passo, anche con l’apporto di altre associazioni ed esponenti della società civile, le tappe di questo percorso, che si presenta tanto cruciale quanto difficile e dilemmatico.