Non è cosa nuova che in seguito all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 i prodotti artistici giapponesi abbiano cominciato a penetrare massicciamente in Occidente. L’aneddoto del volumetto d’Hokusai giunto fra le mani di Bracquemond come imballaggio d’alcune porcellane è noto a tutte le persone beneducate che nemmeno ignorano, probabilmente, come la diffusione di queste stampe abbia influenzato di lì a poco tempo la pittura impressionista. Anche i più generici e frettolosi fra i manuali d’arte parlano di una presenza di modelli giapponesi nel Saggio di figura en plain air di Monet o nella Tinozza di Degas, entrambi del 1886, e che Il ponte di Langlois (1888) di Van Gogh, col suo ponticello giallo smilzo e sottile come un fusto di bambù, sia derivato da originali nipponici è un fatto acquisito. Sicché non avrebbe molto da dire una mostra sul nipponismo, se non si proponesse – come questa Giapponismo Venti d’Oriente nell’arte europea, allestita nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo per cura di Francesco Parisi, fino al 26 gennaio – d’osservare il fenomeno soprattutto in artisti men grandi e men noti degli Impressionisti, in generi diversi, come l’illustrazione e le arti applicate, e in aree geografiche dove solitamente meno lo si cerca, come quella asburgica. Non che le sale non contino alcun Monet o alcun Degas (del primo è presente un olio Passerella a Zaandam, del secondo un pastello Donna che si pettina) ma è palese come il curatore abbia suddiviso la mostra in cinque sezioni (Italia; Francia e Belgio; Inghilterra; Austria, Boemia-Moravia e Giappone), arricchite di mobili, vasi e incisioni, al fine di mostrare più la capillarità del fenomeno che i suoi episodi salienti.
Vanno innanzitutto distinti giapponismo e giapponeseria che fu una delle varie lingue della Babele eclettica ottocentesca. La giapponeseria, diceva spiritosamente Jullian, ignora l’essenzialità Zen. Se non possiamo, infatti, dubitare che il buon gusto regnasse, nonostante la superfetazione d’oggetti, nell’appartamento dei Goncourt a Auteuil, ci è difficile credere che il salottino giapponese di Matilde Serao o le prime collezioni orientali di D’Annunzio andassero molto oltre l’incongruo bric-à-brac motteggiato da Scarfoglio nella sua parodia dell’Isotta Guttadauro, dov’è descritta una sala da pranzo in cui mentre «…su li arazzi gialli / fuggon le ninfe antiche via col vento / incoronate d’alghe e di coralli / entro i nostri bicchieri il vino dorme; sul camino un mostro giapponese / guarda, ridendo, la sua pancia enorme». Di questo genere è la stanza che fa da sfondo al quadro di Gerolamo Induno Dorme (1871), col fantolino che riposa infagottato come un piccolo Mosè in una sontuosa arca barocca fra paraventi e arazzi giapponesi. Ma tant’è… il giapponismo cominciò come una snobistica infatuazione: le signore che avevano indossato il corsetto adoravano adesso il kimono; la Dame aux camélias era diventata alla fine del secolo Madame Chrysanthème!
Questa fase iniziale del nipponismo è ben testimoniata in mostra da numerosi dipinti: spiccano, accanto alle fanfare cromatiche dell’Hans Makart di La giapponese (1875), esiti più placidamente descrittivi quali La signorina K. Nel ruolo di Yum-Yum in Il Mikado (1893) di Alois Delug o Momento di riposo (1872) di Adolfo Belimbau. V’è anche una flessuosa statuetta di Giovan Battista Amendola, Ritratto di signora in Kimono (1886) in una posa che non sarebbe spiaciuta a Benvenuto Cellini. Quanto ad asciuttezza, tuttavia, sebbene arieggino motivi orientali, tutte codeste opere, stanno alle incisioni di Hiroshige o di Utamaro come gli Ugonotti di Meyerbeer a La Mer di Debussy.
Doveva passar qualche tempo perché l’arte occidentale s’imbevesse di quella giapponese al punto da cercare di riprodurne anche le strutture e i procedimenti formali. Già il delizioso Tavolino intarsiato di Gallé aspira a imitare, oltre che il soggetto (due gru in piedi su uno specchio d’acqua), la libertà compositiva delle xilografie giapponesi; e lo stesso potrebbe dirsi dei vasi e dei boccali dell’artista esposti in sala (La Carpe, 1878; Boccale alla giapponese, 1884-1889; Vaso quadrangolare con montatura, 1896) dove, come nei versi di Montesquiou, «i pesci che vedi aggrovigliarsi in trasparenza / si confondono in una vitrea dissolvenza». Un carattere ancora più marcatamente nipponico hanno i lavori dei nabis, e in particolare di Paul Ranson del quale sono visibili tre opere: Quercia da sughero sul mare durante una tempesta (1898), L’onda (1893) e Danzatrice con ventaglio (1893).
Ma a ben scorrere queste sale sembrerebbe che tutti gli artisti del tardo Ottocento ne abbiano attinto qualcosa. La semplificazione lineare delle figure e la mancanza d’una costruzione prospettica piacquero tanto a un artista come Van de Velde (presente con un arazzo La veglia degli angeli del 1892) quanto ai nabis, impegnati in quegli anni nella ricerca di una sintassi nuova, mobile e leggera come quella dell’arabesco; mentre l’assenza di una modulazione chiaroscurale dei volumi dovette attrarre impressionisti e simbolisti, i primi perché s’adattava alla loro inedita concezione della luce, i secondi perché sottraeva alle figure quel tanto di terrestre corporeità che spiaceva alla loro indole di sensuali inibiti. E se dagli album giapponesi di stampe a soggetto naturalistico Mackintosch non apprese che la perizia calligrafica, evidente nei due studi Rododendro (1914) e Tasso in fiore (’15), altri come Vittore Grubicy de Dragon impararono dai kakemono a trattare la natura come una diffusa unità spirituale. E così si potrebbe continuare: nel complesso, infatti, la mostra lascia che la varietà degli esiti prevalga sull’organicità, anche perché la disposizione delle opere, per origine nazionale anziché per anni e movimenti, su un periodo tanto vasto (1860-1915) finisce col privilegiare le differenze più che le analogie tra gli artisti accostati, come nella sala dedicata alla Francia e al Belgio dove Khnopff, Denis, Gallé e Van de Velde si danno di gomito.
Sicché più d’un vasto affresco s’ottiene una Wunderkammer d’oggetti da delibare nella loro singolarità o, se si vuole, un orto botanico che raccolga i più svariati innesti. E molti e strani furono questi innesti: giacché impressionisti, post-impressionisti, simbolisti, modernisti ciascuno tracciò una personale via per l’Oriente. Beardsley, Moser, Signac, De Nittis tutti codesti decoratori, incisori e pittori trovarono che l’Arte era malata di passatismo e si provarono a sanarla: il disco rosso dell’Hinomaru fu la loro compressa. Chi la prescrisse pura, chi la disciolse in altri princìpi; come che sia nelle sale di Palazzo Roverella possono ammirarsi tutte, o quasi, le formulazioni di questo specifico.