Produzione sofferta, impegnativa, per più di un motivo straordinaria questo film/inchiesta sul quel famoso caso di stupro che nel dicembre del 2012 una gang di balordi perpetrò con inaudita violenza sul corpo di una studentessa di Delhi, a bordo di un autobus. Nel tentativo di difenderla anche il suo compagno venne massacrato. Seminudi, sanguinanti, ritenuti morti, vennero gettati fuori dal bus in corsa e rinvenuti poco dopo da una guardia, allertata dai guaiti (“pensai fosse un cane…”). Vennero ricoverati d’urgenza ma la ragazza non resse alla gravità delle lesioni interne e il 29 Dicembre spirò in una clinica di Singapore, dove era stata trasferita.
Caso di stupro tutt’altro che isolato nell’attualità dell’India – e non solo dell’Ìndia, fenomeno in crescita ovunque. Ma che per la prima volta nella storia dell’India riuscì ad accendere una protesta senza precedenti. Per un mese la centralissima India Gate a Delhi si trasformò in permanente
sit in, di donne e anche moltissimi uomini che si trovarono a sfidare i lacrimogeni, i cannoni d’acqua, la più selvaggia gragnola di lathi (il micidiale bamboo) delle forze dell’ordine, con picchi di particolare tensione quando da Singapore giunse la notizia del decesso. Se fino a quel momento i tanti casi di stupro, nelle città come nelle campagne, si erano conclusi al massimo in denuncia, la vicenda di questa giovane vita stroncata a pochi giorni dal diploma, che era riuscita a smuovere l’indifferenza di una tale massa di persone, che per volere degli stessi genitori non era vergognoso nominare con il suo vero nome, Jyoti Singh, fece notizia su tutte le testate del mondo. “Ed io mi sentii letteralmente obbligata a partire” rievoca la regista. “Sentivo che quelle migliaia di donne e di uomini che nel freddo della notte erano lì, sfidando la repressione della polizia, per denunciare questa guerra che ovunque si accanisce contro le donne… sentivo che erano lì anche per me, per mia figlia, per tutte le donne che hanno deciso di uscire dal silenzio.” 

Silenzio, dolore, rabbia-dentro che anche Leslee ha provato, avendo subito anche lei violenza. Ne parla ora con libertà, di quella volta che in Sudafrica venne invitata a casa di un tale per una barbecue, per poi accorgersi che l’unica invitata era lei e che il suo ospite aveva ben altre mire. “Ero giovane, non capii che dovevo solo alzare i tacchi e andarmene… Un attimo dopo era già troppo tardi, e mentre succedeva pregavo solo di uscirne viva. Mi sono tenuta dentro questa cosa per vent’anni – perché ciò che ti resta addosso dopo è il senso di colpa, l’idea che in qualche modo te la sei cercata. Sono riuscita a parlarne per la prima volta con mio marito.” 

Il marito è Kim Romer, danese, anche lui attore. Partners di vita e nel lavoro, associati nella stessa Assassins Film Productions con cui hanno sfornato alcune fortunate produzioni in precedenza: East is East, e poi West is West, sul tema di una multiculturalità solo apparentemente inclusiva, ma in realtà segnata da un’infinità di paletti, qual’è quella inglese.

India’s daughter è dunque per Leslee Udwin un esordio alla regia, ammirevole per l’accuratezza dell’inchiesta e per l’intimità che riesce ad instaurare con tutti i protagonisti di questa emblematica vicenda, e in particolare con gli stupratori, avvicinati nel carcere di Tihar. In India si è scatenato un contenzioso quanto mai complesso per queste interviste, e il Governo indiano non solo ha impedito la messa in onda del film, ma ne ha preteso la censura anche su You Tube e in più occasioni ha punito con multe e persino con l’arresto quei temerari che hanno improvvisato proiezioni negli slums, villaggi, retrobottega: nonostante la censura India’s daughter è stato talmente visto, anche solo per frammenti, e commentato, da potersi ritenere un successo di audience, benché la regista rischi ora lei stessa un processo.  “Mi accusano di sensazionalismo, di inquinare un’istruttoria ancora in corso. Peggio: mi accusano di averle pagato queste testimonianze! E di essermi presentata agli stupratori con dialoghi pre-confezionati: un’accusa ridicola, considerato che la stessa difesa descrive gli imputati come illetterati, incapaci di leggere e di scrivere; ma sufficiente per attizzare quel mood nazionalista e quindi anti-straniero che ha portato alla vittoria l’attuale governo di Narendra Modi e che (per esempio) vede sotto inchiesta tutte le ONG attive sui più diversi fronti, in quanto ‘foraggiate’ da fondi esteri. Ovviamente era cruciale per me potermi incontrare con gli stupratori. E per farlo ho inviato una appassionata richiesta alla Direttrice del Carcere, che ha valutato l’interesse pubblico del progetto e l’ha caldeggiato a chi le stava sopra. Ma accanto a me nel carcere di Tihar, con tanto di troupe e telecamere per giorni, c’era sempre un funzionario del Ministero degli Esteri: è tutto registrato, 35 ore di girato nell’arco di una settimana, di cui la metà al cospetto di Mukesh e compagni. E non mi sono improvvisata in quelle interviste, c’è stato un lungo lavoro di avvicinamento…”
Una quantità impressionante di reports, articoli, tutti gli atti processuali disponibili, incontri con psicologi, sociologi, criminologi, con i giornalisti e
opinion makers che avevano seguito il caso più da vicino: Leslee ha trascorso mesi a Delhi, prima di entrare nel carcere di Tihar. “Avevo letto dell’efferatezza con cui la povera ragazza era stata penetrata, addirittura lacerando l’apparato intestinale con una sbarra di ferro, e mi aspettavo di incontrare dei mostri. E invece eccomi di fronte alla tranquilla sicurezza di Mukesh Singh, l’autista del bus, che fin da subito percepisco come leader del gruppo: occhi dritti in camera, nessuna timidezza, prontezza di eloquio… potrebbe essere anche lui uno studente part time, o l’operatore di un call center, com’era la sua vittima, Jyoti Singh. E’ visibilmente soddisfatto del suo status di urban citizen, in salvo dalla miseria da cui è fuggito, anche se l’approdo è il lurido slum che ho ripreso andando ad incontrare i suoi vicini, alla periferia di Delhi. Ma prima di incontrarmi con Mukesh e compari, ho voluto testarmi, capire in che modo pormi per meglio entrare nelle loro teste. Ho chiesto di vedere prima altri detenuti per stupro nella stessa prigione, tra cui uno reo confesso di centinaia di stupri: una cosa tremenda… Ma mi è servito per capire quante cose ci sono da capire: che cosa fa di un uomo uno stupratore? cos’è che suscita in un numero crescente di uomini quel desiderio di grabbing, quel primario impulso di sopraffazione? Davanti a Mukesh mi è sembrato di toccare il cuore della storia, l’abisso di percezione…” 

Mukesh che già condannato a morte con un processo di primo grado per direttissima, avrebbe tutto da guadagnare nel mostrarsi almeno un po’ contrito – visto che prima o poi, con i tempi lunghi della giustizia indiana, ricominceranno le udienze in appello. E invece per niente: nella sua testa persiste l’idea che una ragazza, in giro alle nove della sera, è la prima responsabile. 

E’ cominciato con uno sfottò, eravamo fatti, il ragazzo si è inalberato, lei si è messa a strillare, meritavano una lezione, entrambi. Se invece di strillare lei fosse rimasta zitta non sarebbe finita in quel modo… E comunque una ragazza per bene non se ne va in giro con l’amico di sera, doveva stare a casa”. Non diverse le argomentazioni degli avvocati difensori, benché meglio educati di lui: “Non c’è posto per la donna nella nostra cultura… una donna è un diamante, se lo lasci in giro, il primo cane che passa se lo prende… nella testa di un uomo, donna significa sesso, naturale che sia così…” pontifica senza ritegno l’avvocato M.L.Sharma. E ancor peggio il suo collega A.P.Singh, che semmai sapesse di sua figlia implicata in situazioni compromettenti, le strapperebbe gli abiti di dosso, la coprirebbe di benzina, e le darebbe fuoco “dinnanzi a tutta la famiglia, sissignori, questo farei!…” Come stupirsi della totale assenza di pentimento nelle parole di uno stupratore di bassa casta, difeso da simili mentori? O della totale assenza di consapevolezza circa le atrocità inflitte alla giovane, se da altri tasselli del mosaico sociale che l’inchiesta riesce a ricostruire, capiamo che nel suo milieu di provenienza, certi abusi sono normale amministrazione, senza particolare connotazione di genere, semmai di potere (chi sta sopra vs chi sta sotto…)? Dalle parole e dai toni di Mukesh è chiaro che la bestia-dentro che quella notte ha guidato lui e gli altri nel bestiale body grabbing è ancora lì perché in ciò si sente uomo.

Non ho potuto fare a meno di ricordare quel libro straordinario di Gitta Sereny, In quelle tenebre, intervista infinita a un comandante nazista responsabile degli orrori di Treblinka – sostanzialmente per rivelare che se la storia o i tribunali lo hanno definito colpevole, colpevolezza in lui non c’è perché non c’è mai stata la nozione del crimine commesso…” è l’amara conclusione di Leslee Udwin. “Perciò mi dico che questo film è solo l’inizio di un più vasto e quanto mai necessario progetto di rieducazione, coscientizzazione, confronto, dibattito, vorrei che questo film diventasse uno strumento. Le statistiche ci dicono che la violenza contro le donne, ovunque nel mondo, non solo in India, sta dilagando, anche in strati sociali considerati evoluti. E dobbiamo fare qualcosa, donne e uomini insieme. Soprattutto uomini.” 

Boxino/info:

India’s daughter di Leslee Udwin è il film in concorso questa sera, 13 giugno, al Biografilm Festival di Bologna, Cinema Europa (h 19.15). Verrà replicato domani (domenica 14 giugno) alla Casa della Cultura di Milano Via Borgogna 3 (h 20) e lunedì a Roma alla Casa Internazionale delle Donne, Via della Lungara 19 (h. 18). Info: www.indiansdaughter.com .