Arrestato «da due poliziotti senza uniforme né distintivo» che volevano incastrarlo perché omosessuale, in una strada di Doqqi, lo stesso quartiere del Cairo dove viveva Giulio Regeni. Sbattuto in una cella di cinque metri per cinque insieme ad altre 50 persone, è rimasto, dal 6 luglio al 2 agosto 2015, per 27 giorni, in quello stesso quartiere, in una “prigione” di fatto occulta, che nessuna istituzione terza potrà mai visitare. Ne è uscito vivo solo perché, per un colpo di fortuna, è stato aiutato da un altro prigioniero ad avvisare l’ambasciata italiana in Egitto. Ma in quegli interminabili giorni, 21 prima di comparire davanti a un giudice, è stato costretto a «ad assistere alle torture che infliggono agli altri prigionieri».

E ora, dopo l’omicidio di Regeni, D.G., italiano di 30 anni che viveva al Cairo dal 2009, con «un lavoro stabile e un’ottima reputazione», ha deciso di raccontare all’agenzia di stampa internazionale Vice news (news.vice.com) la sua terribile storia. Una testimonianza diretta che potrebbe essere molto utile agli inquirenti italiani per identificare la firma di quelle sevizie riscontrate sul corpo di Giulio Regeni, di cui peraltro sapremo tutto oggi, quando il professor Vittorio Fineschi consegnerà il referto completo dell’esame autoptico al pm Sergio Colaiocco.

Indagini che invece faticano ad avanzare per la mancanza di collaborazione da parte delle autorità egiziane. Giusto ieri la procura di Roma ha rinviato al Cairo, dopo la rogatoria di qualche settimana fa, una nuova richiesta di atti e documenti, avendo ricevuto la scorsa settimana solo materiale cartaceo in arabo, incompleto e di fatto inutile. Proprio per questo rimarrà al Cairo, dove oltre un mese fa è stata inviata dal procuratore di Roma, la squadra di investigatori italiani composta da tre agenti dello Sco e tre carabinieri del Ros.

Diventa però urgente appurare se – come si evince dallo scoop di Vice news, a meno di smentite – lo stesso governo italiano non sia già a conoscenza di altri casi di abusi e torture subite da nostri connazionali in Egitto, prima di quello finito con la morte di Giulio Regeni. Perché nell’articolo firmato da Eleonora Vio, D.G. racconta come l’ambasciatore Massari e il console Fava, avvisati da un parente di un altro prigioniero – un ragazzo italo-egiziano che «ha fatto sì che il mio sequestro si trasformasse in un arresto formale» – siano riusciti ad evitare il peggio.

«In compenso, mi trasportano – racconta l’uomo – a più riprese nella cella adiacente, dove mi costringono ad assistere alle torture che infliggono agli altri prigionieri Mi fanno sedere a terra e mi obbligano a osservarli, mentre torturano gli altri detenuti con calci, pugni, frustate e persino coltelli. Nella stanza, strisciando i piedi, entra un giovane egiziano fermato a un posto di blocco, che, come me, aveva fatto l’errore di dimenticarsi il documento d’identità. Lo percuotono con ogni tipo di arnese, finché una delle guardie non estrae una lama dalla tasca e inizia a conficcargliela nelle gambe. Una, due, dieci volte. Il ragazzo perde i sensi. C’è sangue ovunque. Le guardie, anziché medicarlo, lo ributtano nella cella con noi. Ci strappiamo le magliette per tamponargli le ferite, per evitare che muoia dissanguato. Solo il mattino seguente gli agenti lo prelevano e lo portano all’ospedale militare. Il ragazzo ricompare tre giorni dopo, su una sedia a rotelle. Non solo ha perso l’uso delle gambe, ma anche la voce».

D.G. è stato molto «fortunato», (Giulio e tanti altri ragazzi egiziani no).