«Quello che è veramente comico è il considerare come l’Abate, teologo quondam, ora libertino e uomo di mondo, abbia assunto l’impresa di far guastare l’unica bella cosa che abbiamo al mondo». Così un indignato Alessandro Verri scriveva il 6 marzo 1767 al fratello Pietro. Al centro della lettera c’era il destino di quell’«unica cosa bella», che un altro dei fratelli, l’abate Carlo, si era messo in testa di ripulire con competenze scopertamente dilettantesche. Da sette anni la famiglia Verri si era trasferita infatti in quel grande palazzo milanese, comperato dal padre Gabriele, in contrada del Monte (l’attuale via Montenapoleone), che custodiva uno strano tesoro: un salone completamente tappezzato da pitture con Orfeo circondato da centinaia di animali di ogni specie e provenienza. Non si fatica a credere che per i Verri, con quell’indole illuminista che li contraddistingueva, l’aspetto catalogatorio di queste tele rappresentasse qualcosa di «bello» in ogni senso. Non a caso sono noti gli interessi naturalistici dei due fratelli, che nel 1766 a Parigi avevano fortemente voluto incontrare il grande autore dell’Histoire naturelle Georges-Louis Leclerc de Buffon. Questo tesoro se lo erano ritrovato nella residenza che Gabriele aveva acquisito e che era stato di Alessandro Visconti: proprio lui, capocaccia oltre che agente milanese del cardinale Leopoldo de’ Medici, aveva commissionato questi grandi teleri, forse in occasione del suo matrimonio, celebrato nel 1674.
La storia di quell’«unica cosa bella» di casa Verri sarebbe stata una storia quanto mai travagliata sotto ogni profilo. Nel 1787 Carlo Bianconi lo aveva segnalato nella sua Nuova Guida di Milano come meritevole di essere visitata. Ma lo stesso Bianconi ipotizzava un’attribuzione al genovese Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, attribuzione che avrebbe condizionato sino a tempi molto recenti il dibattito critico sul ciclo. I passaggi ereditari erano stati ancor più condizionanti, in quanto il palazzo nel 1877 era stata venduto da Carolina, la nipote di Pietro Verri, e l’insieme delle grandi tele trasferito a Palazzo Sormani, a Porta Vittoria (Carolina aveva sposato infatti un rampollo della famiglia Sormani Andreani). Ed è lì che sono rimaste sino a oggi, passando attraverso tante diverse sistemazioni. Il palazzo è diventato di proprietà del Comune di Milano, che nel 1948 ha portato qui la Biblioteca più importante della città, mentre la maggior parte delle tele fanno da tappezzeria a una frequentata sala per incontri e concerti che i milanesi conoscono appunto come Sala del Grechett: anche se Grechetto non c’entra…
Questa lunga premessa è per capire le ragioni della mostra ardita e suggestiva che è stata allestita a Palazzo Reale, con epicentro il Salone delle Cariatidi: Il meraviglioso mondo della natura, a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, fino al 14 luglio, catalogo 24Ore Cultura). Negli spazi delle Cariatidi infatti è stato ricostruito il Salone di palazzo Visconti-Verri, ricomponendo le tele nell’ordine che è stato possibile stabilire, in particolare attraverso una serie di quadri che lo avevano immortalato prima dello smantellamento. Oltre a ritrovare il loro stato originario (anche se purtroppo ci sono lacune per via di tele tagliate o andate perse), il ciclo ha ritrovato anche la sua vera paternità: come è stato ricostruito recentemente da Vittoria Orlandi Balzari, il ciclo ha visto all’opera Pandolfo Reschi, artista di Danzica naturalizzato fiorentino, e un altro «giovane olandese»; a completarlo sarebbe poi intervenuto, nelle parti delle figure umane, Livio Mehus, altro artista nordico attivo alla corte granducale. In conclusione, le tele erano state concepite sull’asse Firenze-Milano, come aveva intuito già nel 1982 Mina Gregori, più che su quello con Genova, con quel tradizionale riferimento al Grechetto.
Dunque tra 2018 e 2019 il ciclo, per tanti anni un po’ dimenticato, ha vissuto il sussulto di un doppio colpo di teatro. Il primo relativo al ritrovamento della triplice paternità dell’opera, il secondo invece grazie allo stupefacente dispositivo allestitivo messo in atto alle Cariatidi, firmato da Margherita Palli e da Pasquale Mari per le luci (una coppia vista in azione, in contemporanea, anche nella stupenda edizione della Kovanscina di Musorgskij alla Scala, con la regia di Mario Martone).

Il tentativo è stato di ricostruire una vera e propria simulazione dell’effetto che si doveva provare entrando nel salone delle pitture tanto amato da Alessandro Verri. Le finestre erano posizionate solo su uno dei lati lunghi della sala, e la stessa disposizione è stata ricostruita alle Cariatidi, facendo sperimentare al visitatore anche il variare delle luci secondo il momento della giornata; anche il lambris, lo zoccolo decorato che correva alla base, e le decorazioni delle finestre sono stati ricostruiti facendo ricorso a un’altra eccellenza del nostro teatro, Rinaldo Rinaldi, con il suo laboratorio modenese. Sono oltre 250 le diverse specie di animali che si palesano attorno a noi, richiamate dal suono incantatore della lira di Orfeo, che cerca consolazione dopo la perdita di Euridice. C’è un che di favoloso in questa giostra della natura (agli animali si aggiungono anche oltre 40 specie vegetali diverse), dove il leone convive pacificamente con il cervo e la tigre con il daino; dove la geografia zoologica non conosce frontiere, perché la volpe artica convive con le scimmie. Giustamente nel catalogo, grazie alla collaborazione preziosa del Museo di Storia Naturale di Milano, viene proposta una dettagliatissima infografica che seziona le tele, schedando con cura tutti gli animali e le piante che vi appaiono, rispondendo a tutte le possibili curiosità. Le sorprese non finiscono, perché in un analogo spazio costruito sempre all’interno delle Cariatidi, lo spettatore ritrova gli animali visti sulle tele, in versione tassidermizzata, provenienti dalle raccolte dello stesso Museo di Storia Naturale. «Un esercizio di arte e di illusione», lo hanno definito i due curatori della mostra. Che evidentemente hanno voluto puntare sul fattore meraviglia suscitato da questo ciclo così fuori dall’ordinario. L’installazione che troviamo in apertura rende subito esplicito l’intento: qui Margherita Palli ripropone il dispositivo realizzato nel 2010 per il Sogno di una notte di mezza estate portato in scena da Ronconi, dove le parole (in questo caso quelle del titolo) diventano paesaggio, in un ambiente riempito dal cinguettio degli uccelli.
Attorno alla mostra si è acceso subito un dibattito, poiché un allestimento come questo presuppone l’idea che al ciclo si debba trovare una sistemazione più adeguata rispetto alla Sala del Grechetto (dove il montaggio delle tele è necessariamente arbitrario). Sulla questione è sceso in campo un altro studioso, Alessandro Morandotti, che con un pamphlet (Una mostra, un trasloco, Scalpendi editore, e 15,00) ha invece difeso l’idea che il ciclo debba conservare la sua attuale sistemazione, che «è ormai parte della consolidata storia conservativa di quel complesso di tele». Secondo Morandotti le troppe lacune del ciclo sono un ostacolo all’idea di riproporre il ciclo in una situazione simile a quella originaria. Il dibattito dunque è aperto, ed è una delle ricadute di una mostra che ha il merito di aver riacceso i riflettori su questa obnubilata «meraviglia» milanese.