Nativi, residenti, creature di passaggio, abitanti stabili e occasionali. Tutte e tutti ormai, muovendosi per Roma vivono un disagio, un sentire che è misto di sconforto, ribrezzo, rabbia, incomprensione, emozione, fascino, bellezza. Oltre a ciò che si coglie a prima vista, che si sente sulla pelle camminando, cos’è che provoca questa sensazione così composita e che si attacca al respiro? Per intenderla un po’ esiste anche una mostra che è al Museo di Roma in Trastevere (Taccuini Romani. Vedute di Diego Angeli. Visioni di Simona Filippini, fino al 23 febbraio, a cura di Silvana Bonfili).

Nella mostra dialogano incanto e disincanto senza che si possa attribuire all’uno o all’altra interamente il carico di questi due stati d’animo. Diego Angeli, figura di intellettuale capace di passare a grande velocità dalle cronache di guerra a quelle della Roma aristocratica, bon vivant e già estenuata dei primi anni del ’900, guarda alla città quasi sempre da piccoli formati cartolina, per la prima volta in mostra, in cui racconta, proprio come in un taccuino da elzeviri, una città dannunziana fatta di monumenti, campagne da percorrere a cavallo e su macchine scoperte, rovine belle come fondali d’opera, campagne e natura dipinte come idilli.
Angeli dipinge come scrive Henry James, camminando per Roma e dintorni. «Andare alla ricerca di un obiettivo più o meno teneramente sognato, affrettarsi e poi fermarsi per tirare quel primo lungo respiro che è il compromesso fra così tante sensazioni». In quel fermarsi si affaccia un disincanto fatto di piccole pennellate, di toni assopiti e velati che raccontano una città che non riesce a scrollarsi dalla sua storia, che stesa sulla sua splendida campagna guarda le metropoli europee crescere, rutilante, pigra, sensuale, smagata.

A QUESTO RACCONTO risponde, proprio come una corrispondenza, Simona Filippini, con un suo lungo progetto, Rome LOVE, curato da Chiara Capodici. Polaroid, basta il nome e a molti non giovanissimi la prima sensazione è di quelle foto che tutti avevano l’impressione di saper fare e pochi, in realtà, ne erano capaci.
Di quelle foto che bisognava guardare da vicinissimo per reperire parenti, amori, amici, frammenti di case, vacanze, luci, paesaggi che rimanevano nello sguardo, indelebili tanto più la foto ne evocava solamente i dettagli, le silhouette, i bagliori. Scegliendo questo medium, Filippini obbliga immediatamente lo sguardo ad una comunanza sentimentale. Perché lei ama immensamente una città di cui racconta una sofferenza e una bellezza straordinaria e drammatica, un silenzio e una fatica di vivere altrimenti inenarrabili. Non può essere l’indifferenza la risposta a quello splendido male di vivere della città tutta, è l’empatia, è il ficcarci dentro lo sguardo senza che questo diventi mai violenza.

È GUARDARE ALLE NOTTI, all’incrociarsi di vite, a particolari che non possiamo né vogliamo vedere, a frammenti di bar, di strade, di venditori ambulanti, di nuovi monumenti e muri affaticati. Sono piccole note autobiografiche, una sorta di delicata autopresentazione, che mai diventa quel grossolano «metterci la faccia» che troppo spesso si sente risuonare nelle orecchie, che passa per i neon e per le cabine per fototessere. Un racconto, certo, un narrare per luci lunari anche di giorno, calcinanti, sfocate, ma un racconto di una città il cui male, che Filippini non concede di pensare incurabile, è l’essere diventata milioni e milioni di molecole che non sono un organismo, monadi perlescenti splendide e impermeabili.

C’è una sedia vacante in una foto di Filippini, sfocata, in un androne come solo a Roma ci sono. Una sedia vuota in penombra che attende non una persona, ma un riscatto, un dialogo che coinvolga tutte e tutti, un risarcimento del troppo tempo sprecato che lo sguardo della fotografa offre a Roma e a chi, attraverso lei e attraverso i propri passi, ogni giorno si chiede cosa mai sia successo.