Carne y Arena (Virtually Present, Phisically Invisible), questo il titolo dell’installazione di Alejandro Iñárritu, visibile presso la Fondazione Prada di Milano sino al 15 gennaio 2018. Prodotto da Legendary Entertainment e Fondazione Prada l’installazione ha avuto un prologo ufficiale al festival di Cannes prima di approdare a Milano. Non è la prima volta che la realtà virtuale risucchia lo spettatore (se si può ancora chiamare così) in una dimensione altra, certo è che il lavoro di Iñárritu si distingue per l’insieme della proposta.

Di per sé partecipare è relativamente semplice. Almeno dopo essersi prenotati (www.fondazioneprada.org/project/carne-y-arena) perché l’ingresso è singolo, si entra uno alla volta. Prima di accedere all’arena, si entra in uno stanzone molto freddo. Lì ci sono diverse panche di metallo e, sparse in giro calzature. Una scritta ci avvisa che si tratta di scarpe che sono state trovate esattamente nello spazio desertico che divide il confine tra Messico e Stati uniti. Un’altra scritta avvisa che quando scatterà l’allarme si potranno riporre le proprie scarpe in un armadietto e accedere a piedi nudi verso il luogo dell’installazione. E quel che appare è uno spazio piuttosto vasto il cui pavimento è ricoperto di sabbia. Per questo i piedi devono essere nudi, per un’ulteriore esperienza sensoriale. Qui si viene rapidamente istruiti e dotati dell’attrezzatura che consiste in uno zainetto, una cuffia e un visore. Così sistemati ci si ritrova nel deserto, e si può cominciare a condividere l’esperienza di un gruppo di clandestini.

Chi cerca aiuto, chi si muove con cautela, sino a quando non arriva il rumore agghiacciante di un elicottero, con i fari puntati verso il basso, verso di «noi», poi arriva sul terreno anche la Migra, la polizia di frontiera statunitense, a urlare ordini con le armi spianate. E anche il più distante dei partecipanti e il più lucido nel ritenersi comunque in una situazione simulata, non potrà dire che la faccenda non l’abbia coinvolto. Per poco meno di sette minuti si vive come coloro che cercano migliori condizioni di vita e vengono invece considerati criminali.

«Nel corso degli ultimi quattro anni, mentre l’idea di questo progetto si formava nella mia mente, ho avuto il privilegio di incontrare e intervistare molti rifugiati messicani e dell’America Centrale. Le loro storie sono rimaste con me e per questo motivo ho invitato alcuni di loro a collaborare al progetto». Così racconta Iñárritu, messicano, regista, quattro Oscar in bacheca, che poi prosegue «la mia intenzione era di sperimentare con la tecnologia VR per esplorare la condizione umana e superare la dittatura dell’inquadratura, attraverso la quale le cose possono essere solo osservate e reclamare lo spazio necessario al visitatore per vivere un’esperienza diretta nei panni degli immigrati, sotto la loro pelle, dentro i loro cuori».

Il paradosso sta proprio qui. La realtà virtuale ti avvolge, sei tu a ruotare lo sguardo e dirigerti dove ritieni opportuno, un’esperienza che va in altra direzione rispetto al cinema, dove siamo invece costretti a condividere il punto di vista scelto dal regista. Eppure viviamo le stesse prepotenti emozioni dei primi spettatori cinematografici che fuggivano davanti all’arrivo di un treno. Ormai barricati di fronte alla valanga di immagini che ci investono qui scopriamo di avere ancora un ventre molle, di rimanere impauriti di fronte a un poliziotto urlante, di sentirci impotenti di fronte a gente forse ferita che chiede aiuto, di capire meglio cosa significhi rischiare la pelle per cercare di vivere una vita plausibile. Certo, non c’è bisogno necessariamente di partecipare a un’installazione di realtà virtuale, ma l’emozione che dà aiuta a capire meglio, a toccare la paura e l’impotenza, la protervia e l’arroganza, l’orrore di tempi in cui a milioni sono costretti a fuggire da povertà, guerre, persecuzioni.