Il Medio Oriente è una sorta di avvertimento costante a chi si lascia andare a previsioni. «La guerra in Yemen finirà in poche settimane», annunciava nel 2015 l’Arabia Saudita capeggiando una coalizione araba appoggiata da Usa, Gran Bretagna e Francia. Era la prima prova del fuoco di una sorta di Nato araba poi vagheggiata anche da Trump. Ecco dove siamo arrivati.

La fazione sostenuta dagli Emirati si è appena impadronita nel Sud del porto di Aden cacciando i fedeli del presidente Hadi Mansour sostenuto dall’Arabia Saudita: si frammenta così il fronte anti-Houthi, i ribelli sciiti favoriti dall’Iran.
Gli Usa volevano formare una Nato araba sorvegliata da Israele contro l’Iran ma non sanno mai dove vanno a parare: le guerre civili in Yemen quattro anni fa erano due, ora sono tre.

I filo-sauditi si lamentano che gli Emirati hanno dato il via a un «colpo di stato» delle forze del Consiglio transitorio del Sud (Stc) che ha aspirazioni separatiste mentre Riad, almeno a parole, si è sempre pronunciata per l’unità di un Paese che dalle primavere arabe nel 2011 e dall’uscita di scena del presidente Abdullah Saleh è precipitato nel caos.

Un caos nel quale i sauditi hanno avuto sempre un ruolo di primo piano perché un tempo sostenevano Saleh mentre già nel 2008-2009 bombardavano con i raid aerei gli Houthi, ritenuti un pericolo per le loro frontiere. Dieci anni fa, incontrando quella generosa ma sgangherata guerriglia sulle montagne, mai avrei immaginato che poi avrebbero conquistato la capitale.

In realtà quando i ribelli sciiti zayditi si sono impadroniti di Sanaa nel 2015 Riad aveva già puntato sull’uomo sbagliato: quel Mansur Hadi, che aveva ereditato da Saleh la presidenza, non si è mai rivelato adatto al suo compito di unificare il Paese. E così gli Emirati hanno cambiato cavallo ed eliminato le milizie di Hadi dal porto strategico di Aden, lasciando il presidente nel suo esilio di Riad.

Le vicende yemenite, destinate a ulteriori convulse evoluzioni, si inquadrano nelle tensioni del Golfo con l’Iran e i giochi strategici intorno a Hormuz, Aden e il Corno d’Africa. I Paesi esportatori di petrolio e di gas cercano vie alternative a Hormuz e nuove aree di influenza. I sauditi per esempio hanno già i terminali sul Mar Rosso e ora tentano l’«aggancio» con l’Egitto passando sotto il canale di Suez. Gli Emirati, che non vogliono accodarsi a Riad nella contrapposizione con Teheran, hanno altri progetti che spiegano la loro sponsorizzazione delle fazioni yemenite.

Gli Emirati si sono ricavati numerose zone di influenza in Yemen, come le città-porto di Aden e di Mukalla nell’intrattabile Hadhramaut, santuario di Al Qaida, e i terminal di petrolio e gas nel governatorato di Shabwa, assicurandosi una proiezione marittima, commerciale e militare su Mar Rosso meridionale, dallo stretto di Bab el Mandeb al Corno d’Africa, dal Golfo di Aden all’Oceano Indiano, dove si sono impadroniti dell’isola yemenita di Socotra. E sono riusciti a penetrare anche zone di frontiera sensibili come Mahra, regione orientale al confine con l’Oman. Sono tutti territori dove la guerriglia degli Houthi non è mai arrivata: l’interesse di Abu Dhabi non è quindi puramente legato alla lotta contro i ribelli sostenuti dall’Iran ma punta a dare una dimensione economica e geopolitica a una monarchia che ha enormi spese per la difesa, una sorta di Sparta del Golfo.

In Yemen tra Riad ed Emirati c’è anche una contrapposizione ideologica, come si è ben visto con il cosiddetto golpe di Aden dove le fazioni vincitrici sono state addestrate dagli Emirati. Nei governatorati sudorientali di Hadhramaut e Shabwa i giacimenti petroliferi sono contesi tra le fazioni filo-Emirati e le milizie legate a Islah, il partito che include anche la Fratellanza Musulmana yemenita e sostiene il presidente Mansur Hadi.

I «golpisti» di Aden del Consiglio transitorio considerano Islah un gruppo terrorista e terroristi e i suoi alleati: visto che l’Arabia Saudita appoggia ancora Hadi e Islah, in chiave anti-Houthi e anti-iraniana, questa situazione potrebbe generare nuove rivalità tra Riad e Abu Dhabi. Ecco a che punto siamo con quella famosa coalizione di otto Paesi arabi partita nel 2015 con gli arsenali ripieni di armi occidentali (anche le bombe italiane) e molte ambizioni, prima tra tutte eliminare gli alleati dell’Iran, gli Houthi, che oggi oltre a controllare la capitale stringono d’assedio Taiz, terza città del Paese, e tengono sotto tiro con i missili gli stessi sauditi.

Il tutto in un quadro umanitario tragico, con migliaia di morti, il 60% secondo l’Onu fatti dai raid aerei sauditi. Altro che Nato araba.