«Pane, libertà, giustizia sociale», queste le parole scritte in cufico che creano il giardino-labirinto che Moataz Nasr (Alessandria d’Egitto 1961, vive e lavora al Cairo) ha realizzato all’esterno del Centro Espositivo San Michele degli Scalzi, come già nel 2011 al Jardin des Tuileries di Parigi. Il ritmo concitato è quello dello slogan politico, uno dei tanti che ha riecheggiato in piazza Tahrir. Ideali universali la cui conquista non è affatto scontata e che sono anche un manifesto della poetica dell’artista egiziano. Ha impiegato nove mesi per lavorare all’ambizioso progetto Moataz Nasr. Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno (fino al 9 febbraio 2014), recandosi quattro volte sul posto e dialogando costantemente sia con le maestranze locali che con i rappresentanti delle varie comunità religiose. Questo progetto, curato da Ilaria Mariotti e realizzato dal comune di Pisa e dal comune di Santa Croce sull’Arno (finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito di Toscanaincontemporanea 2012, in collaborazione con Galleria Continua di San Gimignano) è una riflessione che, partendo dall’analisi del territorio, abbraccia argomenti molto più ampi di natura socio-politica, religiosa, culturale. A San Michele degli Scalzi l’artista, con uno sguardo amorevole, si sofferma a guardare dall’alto l’ottagono perfetto (l’8 è simbolo d’infinito e non solo) che si sviluppa attraverso il movimento a cui allude Vacanze romane. Le 8 Vespa messe a disposizione dalla Fondazione Piaggio sono unite tra loro dalle scocche, diventando un unico abbraccio armonioso: non a caso la mostra ha per titolo Harmonia. Tra le opere precedenti, invece, anche i video Father and son (2004), The echo (2003) e The Wall (2012) nella perfetta collocazione scenografica di un lungo corridoio. Ci spostiamo, poi, da Pisa a Santa Croce sull’Arno, percorrendo una distanza di circa quaranta chilometri. A Villa Pacchiani, la fase finale dell’allestimento della mostra The journey of a Griffin non è meno impegnativa. È qui che si riposa lo stupefacente grifone di cuoio dopo il suo lungo viaggio. Un viaggio nel tempo e nello spazio, tra culture e civiltà. La grande scultura di cuoio The return of a Griffin realizzata a mano da artigiani locali dalla consolidata tradizione conciaria (su modelli in 3D forniti dal Cnr-Isti) è imponente nella sua solennità, ma anche vicino. Non è freddo come il marmo o il bronzo ed emana un lieve sentore di cuoio. Verrebbe voglia di accarezzarlo, proprio come fa Moataz Nasr un attimo prima di accomiatarsi.

Memorabilia medievali e animali mitologici: come è nato e si è sviluppato il progetto «Un ponte tra Pisa e Santa Croce sull’Arno»?

Quando, per la prima volta, visitai Pisa guardandomi intorno nella piazza medievale notai in cima al duomo la statua del grifone. Seppi che nel museo era conservata la statua originale, perché quella all’esterno era una copia. Vedendola da vicino mi sorpresi nel trovare una scritta in arabo e iniziai a pormi delle domande. Intanto perché quella statua fosse li e quale fosse il suo significato. Mi fu detto che probabilmente l’architetto che aveva costruito la cattedrale e il battistero proveniva dall’Andalusia ed era musulmano. In quel periodo, tra l’XI e il XII secolo, Pisa godette di un momento di pace e l’influenza dell’architettura moresca si percepisce immediatamente entrando in quei luoghi. Continuando a fare ricerche sul grifone mi resi conto del lungo viaggio che questo animale aveva intrapreso tra paesi e culture diverse. Ogni cultura se ne era appropriata, trasformandolo e adeguandolo alla propria perché fosse accettato. Nell’antico Egitto era un animale bellissimo conosciuto con il nome di sfinge che aveva il compito di proteggere la dea Iside, mentre presso le antiche popolazioni che vivevano lungo la costa a nord del Libano e della Palestina era uno strano animale che poteva volare. Lo ritroviamo anche in Iraq, Persia e si spostò anche in India e Cina per poi tornare indietro. Più o meno il concetto era lo stesso, si trattava di una bestia immaginaria che aveva in sé tutta la forza, la potenza e la bellezza degli altri animali. Ho trovato interessante seguire questo animale che poteva avere la testa di aquila e il corpo di leone, cavallo o tigre e osservare la sua capacità di insinuarsi come un serpente all’interno di tutte le culture, fino all’ultima versione entrata nell’Islam popolare, quello semplice della gente comune. Mi riferisco al Buraq che portò Maometto dalla Mecca a Gerusalemme, un animale che poteva andare più veloce della luce. Alcune volte, questa bestia era pericolosa, altre arrivava a rappresentare la vita stessa di Gesù nel suo morire e rinascere, motivo per cui fu accettato in ambito cristiano. La sua condivisione presso varie culture, con diversi nomi, significa l’appartenenza stessa all’umanità.

Nel tuo lavoro di «artista epidermico e reattivo», come ti definisce Simon Njami, c’è spazio anche per il tuo vissuto personale. In particolare in opere come «The sky» (1999) e «Father and Son» (2004), in cui sono protagonisti tua madre e tuo padre, entrambe incentrate sulla contrapposizione presenza/assenza. Attraverso la pratica artistica hai potuto capire certe dinamiche familiari e mettere ordine dentro di te?

Penso di sì. La mia memoria di bambino è molto presente nel mio lavoro. Certe volte penso addirittura che sia proprio quel bambino a creare l’opera. Il rapporto con la mia famiglia, naturalmente, ha preso forma a quell’età. Ma quei lavori a cui ti riferisci non sono nati come progetti specifici, in particolare The sky che è dedicato a mia madre, è stato fatto dopo la sua morte. È stato per me come il suo funerale. L’ho realizzato in una settimana, era come una reazione nei confronti della sua sparizione, un discorso speciale tra me e lei. Ho creato una stanza fatta di pezzi di legno dove il dialogo ha coinvolto chiunque vi entrasse. Allo stesso modo il lavoro Father and Son non è nato come opera d’arte. All’epoca mio padre aveva 85 anni e tra noi c’era un rapporto difficile. Ho pensato di mettere da parte questo nostro rapporto, perché era troppo pesante per me. Volevo parlare con lui e registrare la nostra conversazione per me e per i miei figli, perché non volevo che un giorno anche loro stessero male. Dopo aver realizzato questo lavoro ho avuto modo di vedere il forte effetto che aveva non solo sui miei figli, ma anche su mio fratello minore. Il lavoro era così forte che è andato oltre l’aspetto familiare, diventando una storia per tutti. Così ho ristretto il video portandolo da tre ore e mezzo a quattordici minuti. Dopo questo dialogo con mio padre mi sono sentito meglio, è stata una sorta di terapia. Una reazione che ho riscontrato anche nel pubblico, non solo proiettando il video in Egitto ma anche fuori, in Italia o a Stoccolma, paesi appartenenti a culture diverse. Non vedo la linea di separazione tra personale e non, questa distinzione non esiste nella mia vita.

Pittura e disegno sono state le prime tecniche che hai sperimentato. Nei primi anni ’90, quando hai iniziato l’attività espositiva, quali erano i tuoi referenti e quando hai sentito l’urgenza di andare oltre la bidimensionalità della tela?

Sono cresciuto in una famiglia con un padre molto rigido. Non avevo giocattoli come gli altri bambini, cosa che in qualche modo è stata positiva perché sono stato costretto a creare da me i miei giochi, dalla palla da baseball al monopattino. Inoltre abitavo al Cairo nella casa di mia nonna, un grande appartamento pieno di stanze vuote dove trascorrevo molto tempo in solitudine. Avevo la necessità di utilizzare vari materiali per costruire i giochi, come i modellini delle città con delle piccole figure. Facevo quello che faccio ancora. Era una gioia, perché sapevo che potevo giocare per un’intera settimana e questo mi rendeva felice. Creavo delle storie instaurando un dialogo tra me e i giocattoli. Nel frattempo ho continuato a disegnare e dipingere, ma ai tempi dell’università avevo accantonato l’idea di fare l’artista. Ci sono arrivato tempo dopo, forse perché lo sentivo profondamente dentro di me e l’universo mi ha ascoltato. Un giorno venne da me un’amica, vide i miei dipinti e disse che in Egitto esisteva un Salon dove i giovani artisti potevano esporre le loro opere. Ci andai, esposi le mie opere e vinsi il primo premio. Fu una sorpresa: decisi di continuare.

C’è chi ti definisce un cantastorie… È così?

In buona parte, lo sono. Anche da bambino ero solito scrivere storie. In questo momento sto lavorando al mio primo film, basato su una storia che ho scritto venticinque anni fa. Non si tratta di un lungometraggio che verrà proiettato nei cinema, ma di un lavoro artistico destinato a gallerie o musei d’arte. Amo raccontare storie, ma anche ascoltarle, andare al cinema e leggere libri. Non sono un lettore veloce, sono molto lento. Mi piace leggere chiudendo gli occhi e digerendo le storie, sentendole, prendendomi tutto il mio tempo.

Quale sarà il soggetto del tuo film?

La paura.

Dimensione estetica e sociale sono i due perni intorno a cui ruota tutta la tua poetica, particolarmente evidente in opere in cui le riflessioni sono più di matrice politica, come «Man-Made» (2006) e «Ice Cream Map» (2008). Lavori in cui emerge anche una componente ludica. È una metodologia per rendere più digeribili argomenti pesanti?

Non penso che sia una scelta, io stesso qualche volta mi sorprendo nel ritrovare nel mio lavoro i diversi aspetti della mia personalità. Sono sarcastico ma, allo stesso tempo, c’è una parte di me rimasta bambina: continuo a realizzare i giochi dell’infanzia. Faccio cubi, labirinti, cruciverba, puzzle… tutti giochi che ero solito fare da piccolo e che utilizzo nuovamente. Sono come tante colonne che sostengono lo stesso tetto.

Anche l’elemento calligrafico è ricorrente, da «The Letters» (2001) a «Propaganda» (2008-2010), fino all’installazione luminosa «Ibn Arabi» (2011). Una scrittura che implicitamente fa riferimento alla religione. Dove conduce il tuo invito alla riflessione in cui, partendo dalla considerazione che le religioni dividono gli uomini, introduci alla scoperta del sufismo?

La religione non era così importante nella mia famiglia, mio padre non pregava e non ha mai frequentato la moschea. Io stesso sono cresciuto senza un indirizzo religioso. Ma leggendo del sufismo ne sono rimasto totalmente affascinato. Penso che il mio interesse sia diventato ancora più forte dopo aver approfondito la conoscenza del buddismo, e aver scoperto il legame tra queste due religioni. Il sufismo è molto individuale, non richiede necessariamente l’appartenenza a un gruppo. Il rapporto è diretto tra l’individuo e dio. Personalmente trovo che sia importante seguire la mia spiritualità senza la mediazione di un’altra persona, un prete o anche un libro. Posso parlare con dio e lui mi risponde. Ecco perché lo porto nel mio lavoro artistico. Non parlo di una religione specifica, ma tutti possono avvicinarsi al sufismo e capirlo a diversi livelli. Il rapporto è anche tra l’individuo e la propria coscienza. La cosa più importante nel sufismo e nel buddismo è che loro propongono l’amore. Amando se stessi si sta in pace e c’è la possibilità di amare tutte le persone che sono intorno a noi. Quando si parla di religioni – qualsiasi religione – si parla di sangue, odio, uccisioni. Si uccide in nome di dio. Questa è una cosa che si può dire dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’islamismo. Sufismo e buddismo, invece, hanno un’umanità diversa, parlarne è facile per me perché ci credo. Credo che diventare una persona migliore porti ad una connessione con l’universo e con se stessi.

Quando ti ho intervistato via skype nel febbraio 2011, alla vigilia della cacciata di Mubarak, hai affermato: «Siamo stati umiliati per trent’anni dalle autorità e dalla polizia. Ora tutto questo è finito. Non accetteremo mai più che ciò si possa ripetere». Nutri ancora speranze per il futuro del tuo paese?

La speranza deve esserci per forza. Sono stati tre anni duri in cui siamo stati in mezzo, tra islamisti fascisti da una parte e militari fascisti dall’altra. Ma penso che non esista alcun potere che possa impedire al popolo di cercare quello che vuole, ovvero semplicemente vivere nella dignità, nella pace, nel rispetto. È importante che anche i poveri possano mangiare, che ci sia giustizia sociale e libertà d’espressione e di vivere secondo il proprio desiderio. Può darsi che ci vorranno ancora degli anni, ma a un certo punto bisognerà risolvere questi problemi. Non si potrà continuare ad andare avanti così, perché il popolo non lo accetterà. Nutro ancora speranza, sì. Arriverà il tempo dei cambiamenti.