Nel 2011, la proiezione alla Berlinale di The Queen Has No Crown di Tomer Heymann (prodotto dal fratello Barak) era accompagnata da una curiosa delegazione: l’intera famiglia dei registi, compresa la madre Noa, il cui padre era un ebreo tedesco fuggito dalla Berlino degli anni Trenta e delle persecuzioni naziste, e approdato in quello che a breve sarebbe diventato lo Stato di Israele. Il film documentava infatti 15 anni di vita della famiglia Heymann, e soprattutto il rapporto con l’amata madre, che pativa la partenza di ben tre dei suoi cinque figli da Israele, in cerca di un futuro migliore altrove.                       

barak-tomer_big

Il rapporto dei fratelli Heymann con Berlino e la Berlinale inizia però nel 2006, con Paper Dolls, un documentario sui transessuali filippini immigrati illegalmente in Israele. E a breve Barak e Tomer torneranno ancora una volta al Festival, nella sezione Panorama Dokumente, con il loro nuovo film Who’s Gonna Love Me Now, in cui condividono i credits da registi con l’inglese Alexander Bodin Saphir.
Ad accompagnarli sarà di nuovo una larga delegazione «familiare» Questa volta però non si tratta dei loro cari, ma della famiglia di Saar, il protagonista del loro ultimo documentario, fuggito da Israele alla volta di Londra 18 anni fa. «Viene infatti da un Kibbutz molto religioso – racconta Barak Heymann – in cui si sentiva inadeguato in quanto gay».

Un cinema, il loro, di andate e ritorni dal luogo dove si trovano le proprie radici, criticato aspramente e al contempo sirena che canta il suo richiamo irresistibile ai fuggitivi che non riescono a smettere di amarlo.
In occasione della recente presentazione al Festival dei Popoli di Mr. Gaga – il documentario precedente di Tomer Heymann prodotto sempre dal fratello Barak – il regista aveva infatti affermato: «Si può criticare duramente Israele e al contempo amarla profondamente, senza che ci sia contraddizione». E Barak usa le stesse identiche parole discutendo di Who’s Gonna Love me Now.

Mr. Gaga, all’apparenza un film assai diverso dato che documenta la vita del coreografo e ballerino di successo Ohad Naharin, riflette in realtà quegli stessi nodi che attraversano tutta la filmografia degli Heymann: il rapporto con la propria casa – intesa sia come terra natia che come famiglia – e la necessità di osservare i propri personaggi entrando quasi sotto la loro pelle, «nel loro corpo e nella loro anima», con le parole di Barak. «Ci interessa questo modo di lavorare perché permette di combinare diversi strati dell’esistenza», continua il regista e produttore, che ricorda come ci siano voluti degli anni per girare Who’s Gonna Love Me Now e ben 8 per Mr. Gaga.

Lo slogan sessantottino per cui il privato è politico ben si adatta al loro cinema, anche se in un’accezione completamente diversa, per la quale scavare negli aspetti più intimi di una vita – quella propria o altrui – consente di far emergere una tensione fra se stessi e le proprie radici, fra le scelte individuali e il desiderio quasi passionale di ritrovare la propria Heimat. The Queen Has No Crown e il precedente documentario Who Shot My Love erano non a caso rimontati ed estrapolati da una serie di documentari il cui titolo, The Way Home – La via verso casa, parla già di questo movimento e contrasto costante con la terra dei padri, in cui Tomer come il protagonista di Who’s Gonna Love Me Now Saar devono conciliare non solo una diversa visione del mondo rispetto al militarismo dilagante trasmesso per via familiare, ma anche la loro identità di omosessuali con un paese contraddittorio, diviso tra laicità istituzionale e un profondo conservatorismo di stampo religioso. Nel documentario del 2011, ad esempio, siamo testimoni del primo Gay Pride a Gerusalemme, in cui molti ortodossi aggrediscono verbalmente e fisicamente i manifestanti.

E la vocazione politica è ancora più scoperta in Barak, anche regista di progetti solo suoi, che al momento sta lavorando a un documentario su Dov Khenin, parlamentare comunista della Knesset ed esponente della Lista Comune, nata dalla coalizione fra Hadash e alcuni partiti arabi.
Il movimento di andata e ritorno è esemplificato dalla storia di Saar: per osservarla i registi sono costantemente in viaggio tra Israele e l’Inghilterra.

Cosa racconterà Who’s Gonna Love Me Now?
Barak: È la storia del processo di riconciliazione tra Saar, che vive a Londra da 18 anni, e la sua famiglia. Nella capitale inglese è entrato nel London Gay Men Chorus, il più grande coro di cantanti omosessuali di tutta Europa. Ma dopo che gli é stato diagnosticato l’HIV ha cercato di ricostruire il suo rapporto con i familiari, che hanno molte paure e paranoie su questa malattia, ma si dimostrano comunque coraggiosi e determinati a combatterle. Non è un film sull’HIV né sull’omosessualità, ma sulle cose davvero importanti della vita: dato che il personaggio attraversa una situazione estrema è obbligato, così come i suoi cari, a confrontarsi con le relazioni familiari, l’identità, l’appartenenza, la nostalgia. Riguarda anche la capacità di crescere, di accettare delle persone con cui si ha un rapporto conflittuale. Come nel caso del padre di Saar, che è stato a lungo nell’esercito e con il quale c’è quindi anche un gap tra una tradizione militaristica è una più «sovversiva». Il solco tra il personaggio e la sua famiglia è molto profondo, così come quello tra lui e Israele.

Sono molti i temi in comune con i vostri film precedenti.
Barak: Who’s Gonna Love Me Now è una continuazione diretta di quei lavori, e in primo luogo per quanto riguarda il processo di documentazione, che è molto lungo. Abbiamo passato tanto tempo con Saar in Inghilterra e con la sua famiglia in Israele. Il film si sposta continuamente tra i due paesi, e noi seguivamo i suoi familiari ogni volta che andavano a trovarlo e viceversa.
Tomer: I Shot My Love e The Queen Has No Crown, ma anche Mr. Gaga e Paper Dolls, così come questo film, sono un modo di guardare la mia società da un punto di vista diverso, di porre uno specchio di fronte a questo mondo.

Questa volta la famiglia protagonista del film non è la vostra.
Tomer: Dopo aver finito The Queen Has No Crown ho pensato che ne avevo abbastanza di riprendere i miei familiari, e che volevo provare a osservare la vita di un’altra persona. In modo diverso ovviamente, perché non si può essere oggettivi parlando della propria madre o del proprio padre. Non essere più al centro della storia mi ha consentito di andare più a fondo, di trovare più risposte.

Come avete «scelto» Saar?
Tomer: Io e lui siamo amici da oltre vent’anni. L’avevo già intervistato per The Queen Has No Crown, ma poi mi ha chiamato da Londra e mi ha chiesto di non metterlo nel film, perché non si sentiva a suo agio a venire allo scoperto dato che si parlava di omosessualità. Oggi invece la sua famiglia affronta insieme a lui la sua malattia, una cosa che tempo fa non sarebbe stata possibile.

Rispetto al primo Gay Pride di Gerusalemme del 2002 come sono cambiate le cose per la comunità omosessuale in Israele?
Tomer: Istintivamente vorrei dire molte cose positive, perché tanto è migliorato e sempre più persone vengono allo scoperto. È una condizione molto più libera di quella che vivono altre comunità, come ad esempio quella araba, palestinese. Anche se c’è ancora molto da lavorare, dato che ad esempio non ci si può sposare come in Spagna, vorrei dire che c’è più libertà di vivere come si vuole. Ma purtroppo non è così: circa un anno fa, mentre filmavo Saar a Londra, ho ricevuto una chiamata in cui mi informavano che una ragazza era stata uccisa al Gay Pride del 2015. All’epoca del Pride che si vede in The Queen Has No Crown un uomo assalì dei ragazzi e fu arrestato. È stato rilasciato un anno fa e ha accoltellato sei manifestanti, uccidendo Sheila Banki, che aveva solo 16 anni ed era andata per supportare la comunità gay. Oltretutto il Gay Pride è riuscito a unire alcuni leader musulmani, cristiani ed ebrei, che di solito si fanno guerra e invece hanno fatto squadra per dire quanto malvagie, malate e sporche fossero queste persone.