Nel paese delle infinite norme e delle infinite precisazioni, circolari, eccezioni, limitazioni mi sono trovato a percorre 500 chilometri in un sabato, per raggiungere, e poi tornare a casa, un cantiere dove verificare alcune lavorazioni. In questi giorni di blocco totale di ogni spostamento.

Con una Panda gialla prestata da un amico sono uscito da una Roma deserta percorrendo la Salaria per immettermi nell’A1 in direzione Firenze. Le strade completamente vuote riempivano lo spazio di un senso di angoscia incontrastabile, come se l’aria fosse tutta contaminata e io, votato ad una rapida consunzione, sarei perito rapidamente e mi sarei aggiunto a quella folla assente.

Sull’autostrada solo camion in entrata e nessuno in uscita: l’assedio.

Poi l’uscita a Chiusi, i soliti punti di sosta sbarrati con una fotocopia sulla porta e via a salire sull’Amiata dove i soffioni boraciferi imbrigliati da Enel fumavano lugubri tra le nuvole. Come se al loro interno si consumasse qualcosa con una relazione con quell’umanità divorata.

Ma fino a questo punto le ansie erano ancora tutte letterarie: la Nube purpurea di Shiel sopra a ogni cosa, con Clodagh – a fidanzata – trovata rinsecchita ancora affacciata al balcone in una Londra sterminata, ma anche un film di fantascienza visto da bambino dove gli alieni si impadronivano della terra, e non parlo dell’Invasione degli Ultracorpi, sostituendosi ad essi; e la cosa si poteva capire solo da una piccola cicatrice sulle persone prese dagli alieni. Alla fine si intuiva che l’umanità alimentava dei mostri alloggiati proprio in officine come quelle di Enel Power del Monte Amiata. Come sia andata a finire non lo so, perché sono fuggito.

Finita la giornata di lavoro, all’insegna dell’individualismo rappresentato via via dalla responsabilità verso il lavoro, verso il cliente, verso le maestranze, verso gli artigiani e, non ultimo, verso me stesso e il mio desiderio di sentirmi essenziale a qualcosa e qualcuno ho ripreso la strada di casa. La giornata si era prolungata oltre il previsto, i soliti problemi imprevisti ma necessari in un sopralluogo, e ormai calava il sole. Nel dirigermi verso l’autostrada ho avuto l’accortezza di percorrere strade secondarie, dove è normale non incontrare nessuno. O quasi.

Un piccolo brivido mi attraversava ad ognuno di quegli incroci deserti fino a che, poco prima di sboccare da una strada secondaria sulla SR74, ho visto un posto di blocco dei Carabinieri. Si erano piazzati proprio sulla mia strada secondaria per pizzicare qualcuno non in regola sulla SR74. In un attimo ho stabilito che fermarmi li avrebbe insospettiti e ho solo rallentato, accostandomi alla loro macchina, piano e con la freccia, per immettermi sulla SR74. Eseguita la manovra, che prevedeva il passare accanto e davanti al muso della loro auto, ho imboccato la SR74, ma piano, molto piano, perché con la mia Panda non potevo sperare di sfuggire, ma solo di filtrare, di insinuarmi. Pochi attimi di attesa di un lampeggiante, di una sirena suonata a intermittenza («accostare!»), senza il coraggio di guardare lo specchietto. Poi, prima di imboccare la prima curva, a destra, con un’occhiata ho visto il vuoto dietro di me: non avevano alzato lo sguardo dai telefonini. La Panda era sgusciata.

Via, veloce, verso un paesone Laziale ora completamente deserto, e che in genere non attraverso per il traffico, e poi verso l’autostrada.

L’autostrada di notte e deserta non la ricordo, forse solo da bambino nei primi anni Sessanta tornando da qualche vacanza. Ma non credo che fosse deserta. Qui non c’era proprio nessuno: buio negli specchietti e buio davanti. Con gli abbaglianti cercavo di capacitarmi dell’esistenza delle strada.

L’angoscia ora ha cambiato carattere e dalla letteratura, più o meno di mezza cultura come si diceva sempre negli anni Sessanta, ha preso un tono distopico. Anch’esso forse letterario e forse no.

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Quella società che mi era sempre apparsa come l’essenza dell’individualismo ora si presentava come una testuggine collettiva sfaldata in pochi giorni. Quelle infinite norme e prescrizioni, ingestibili e incomprensibili, ma accettabili perché diluite in un corpo sociale vasto e incontrollabile, ora erano una minaccia individuale. Nulla nella mia vita è in regola, chissà quante cose nella mia automobile non vanno bene, e quante nel cantiere, e quante nelle certificazioni mie e di tutti quelli che ci lavorano, e poi le tasse , le assicurazioni, le dichiarazioni di rispetto di mille e mille norme che neanche conosco.

«Il sottoscritto dichiara sotto la sua personale responsabilità che sono rispettate tutte le norme di legge vigenti». Tutte, proprio tutte.

In quell’autostrada deserta l’apparire all’orizzonte di una luce lampeggiante blu mi ha colpito come una fucilata: è fatta, sono finito. Cosa ho nel portabagagli? Perché non ho questo certificato? Le gomme poi chissà se sono in regola? E poi, a scendere, mi sono domandato perché ho quelle tegole nel portabagagli («sottratte a qualcuno?» «No, e che sono belle e hanno i segni delle mani». «Dove le ha prese? Può dimostralo?») e poi perché ho questo libro nella borsa se sto andando in un cantiere. In un cantiere non si va per leggere.

La macchina della polizia sfila e forse non mi nota neanche; forza della Panda, penso. La Panda sembra una macchina di locali, chi cavolo usa una Panda per fare 500 chilometri? Io la uso!

Arrivato a Roma accolto da un traffico rarefatto, ma almeno qualcosa circolava, ho tirato un sospiro di sollievo. Altro che individualismo. La nostra è ancora una società collettiva basata sui grandi numeri e sulla statistica. Ci possono colpire, ma è improbabile.

La società autoritaria si manifesterà proprio così, con il traffico inesistente a causa di una qualche calamità. Allora ci fermeranno, gentili ma inflessibili, chiedendoci conto di tutto. Ma proprio di tutto.