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Nato a Parigi nel 1986 e cresciuto a Caracas, Miguel Bonnefoy rappresenta uno dei volti più innovativi e stimolanti di quella narrativa di lingua francese che si percepisce ormai come uno spazio letterario globale, ben al di là dell’eredità post-coloniale d’oltralpe. Tra i finalisti del Goncourt, Bonnefoy ha pubblicato nel 2013 il racconto Icare e quest’anno il suo acclamato romanzo d’esordio, Il meraviglioso viaggio di Octavio, uscito per i tipi di 66thand2nd (pp. 110, euro 16), dove risuonano gli echi del realismo magico sudamericano, e l’amore per autori come Gabriel García Márquez e Alejo Carpentier, nel delineare con ironia e gusto picaresco il viaggio del protagonista alla scoperta dell’universo misterioso del Venezuela, ma anche e soprattutto di se stesso.

Nell’ambito del Festival de la Fiction française, che si concluderà il 26 novembre, lo scrittore sarà oggi alla Biblioteca Europea di Roma alle ore 18.30, insieme a Paolo di Paolo.

Questo è un romanzo che parla dell’amore per la scoperta, a cominciare da ciò che si può trovare nelle pagine di un libro. Come è nato?

Tutto è cominciato un giorno di dicembre nel cuore di Caracas, lungo l’Avenida Baralt, dove si trovano l’equivalente locale dei bouquinistes dei quai della Senna di Parigi. Tra i banchetti di libri d’occasione di cui è disseminata la strada, il mio sguardo è caduto su una copia di Tierra venezolana di Arturo Uslar Pietri, un volume di viaggi degli anni Cinquanta che descriveva il paese attraverso un viaggio, di villaggio in villagio, alla scoperta dei misteri del posto. L’ho aperto e ne sono stato immediatamente rapito. Quando ho chiesto al venditore quanto volesse per quel volume, quello l’ha preso tra le mani, ne ha letto le prime pagine ad alta voce con tono solenne e poi mi ha detto: «Quanto si può pagare per la terra del Venezuela?». Anche per lui era chiaro che quel libro polveroso rappresentava la chiave di accesso a un’intera cultura.

È così che ha deciso di scrivere un romanzo che ripercorresse le tappe di quella medesima «cerca», quasi una pista iniziatica per giungere fino all’anima di questo grande paese?

Per molti versi è andata proprio così, nel senso che Octavio, il protagonista del libro, un analfabeta silenzioso e solitario, cui solo l’incontro con un’attrice di Maracaibo dischiuderà l’universo della scrittura e della lettura, cerca conforto soprattutto negli elementi naturali, nello stratificarsi delle tradizioni e del linguaggio che affondano le proprie radici nella Pacha Mama, l’universo simbolico delle popolazioni indigene. Il suo viaggio che è allo stesso tempo interiore e carnale, lo condurrà a capire che però anche le pagine scritte possono avere un rapporto con la natura, non ci sono barriere: la letteratura è come un albero o un fiume, appartiene a chi vi si avvicina. Carlos Fuentes si augurava che dopo aver letto un suo libro, «le persone non facciano confronti con altri autori, ma con il calore del sole o la forza del vento, in modo da poter trovare nelle pagine tutto il profumo dei Tropici».

Dopo essersi misurato con la figura di Icaro, in questo libro spiega che in America Latina il mito ha preso spesso il posto di una storia negata, vale a dire?

Con Icaro ho scelto di affrontare lo spirito della rivolta, quella del ragazzo che si ribella al padre per definire la sua via. Nel viaggio di Octavio ho cercato di capire il ruolo che il mito ha assunto in un continente che ha alle spalle una lunga storia di occupazione e di resistenza: l’impero spagnolo per quattro secoli e poi, negli ultimi cento anni, quello americano. Oggi, i popoli latinoamericani si stanno riappropriando della loro terra e della loro lingua e in questo processo si passa necessariamente anche per una rilettura di quei miti ancestrali che hanno rappresentato per tanti anni l’ultimo e l’unico rifugio degli oppressi, mentre la storia era scritta dagli eserciti invasori. Il primo compito per uno scrittore che vive qui è quello di dare voce a questo grande silenzio.

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L’eco delle radici di questa terra, dei miti indigeni coltivati come una forma di resistenza, nei suoi libri serve però solo da stimolo per immaginare un futuro diverso.

Assolutamente, non c’è nessuna enfasi passatista, nessun arcaismo nel mio sguardo: maneggiare il materiale simbolico racchiuso nei miti, farne emergere il significato profondo, serve soltanto per costruire un linguaggio nuovo che riprenda e liberi le energie che sono racchiuse in quella che amiamo chiamare la saggezza popolare. Di Icaro non mi interessava tanto la caduta, quanto la sua ascesa verso il volo, la speranza che la nutriva. Allo stesso modo, Octavio apprende dalla tradizione indigena per inventarsi una nuova vita, per definire il suo percorso di riscatto che si compie in una sorta di sintesi con gli elementi naturali: la sua traiettoria definisce un orizzonte di liberazione interiore che niente e nessuno potrà impedire.