Il loro sound è riconoscibilissimo perché hanno tradotto l’epoca magica della patchanka nel contesto italiano, aggiungendo poesia e visioni. Quando iniziò a girare Sauta Rabel su Videomusic nel ‘92 sembrarono i nostri Mano Negra. 8000 km (Godzillamarket/Universal) è il nuovo album dei Mau Mau. Un ritorno che interrompe un silenzio discografico durato dieci anni: «Abbiamo avuto sempre la necessità di far uscire un lavoro nuovo quando ne sentivamo l’urgenza e la spontaneità creativa» – spiega il frontman Luca Morino. «Dopo Dea (album del 2006, ndr) questa tensione era scemata e abbiamo fatto altro. Un paio di anni fa, dopo una serie di concerti, ci siamo accorti che era il momento».

Un disco cantato in varie lingue e con tanti riferimenti musicali, la peculiarità della band, ma questa volta emerge più un suono elettrico e meno patchanka: «Poter imbracciare la chitarra elettrica è sempre un piacere, ma stavolta è presente non in chiave rock nel senso classico del termine, direi più western». La terribile attualità degli esodi infiniti dei migranti, la sofferenza di chi viene dall’altra parte del mondo: i testi dell’album è come se avessero attinto dalle pagine di cronaca: «I Mau Mau hanno sempre affrontato l’argomento, non fosse altro perché Nsongan, il nostro percussionista, viene dal Camerun, anche se all’epoca non si parlava di barconi e frontiere chiuse. Ora la situazione ha avuto un evoluzione in peggio. Abbiamo fatto di tutto per non essere retorici, raccontando il fatto reale di gente che, come dicevamo nel primo album, sta attraversando il mare per cercare da mangiare, ma quando arriva si trova di fronte chi li considera banditi. Il confronto fra culture, violento o morbido che sia, è sempre avvenuto, il concetto di purezza è falso. Lo scambio avviene anche in maniera più subdola: quando attraversi il Marocco pure nei microvillaggi hanno le parabole. Il modello di chi trasmette è occidentale, il contesto resta però quello di zone colonizzate anche in maniera violenta. Mettendo insieme tutti questi elementi è facile immaginare come a un certo punto il vaso trabocchi».

Ottomila chilometri sono più o meno la lunghezza del perimetro dell’Italia, i Mau Mau sono piemontesi ma con l’anima dei giramondo. Con loro convive l’epopea del viaggio, ma muoversi quando ormai si ha un gps acquisisce un altro significato: «La perdita del fascino dell’avventura è un pensiero che mi tormenta. Io sono cresciuto e mi sono nutrito delle avventure di Corto Maltese, popolati di personaggi avvolti nel mistero… Però pochi mesi fa ho deciso di fare un percorso di Torino a piedi, una specie di spirale partendo dalla periferia, camminando per quasi 25 chilometri e senza nemmeno la macchina fotografica per evitare distrazioni: è stata una delle cose più avventurose fatte negli ultimi anni. Questa fascinazione credo possa ancora avvenire nel momento in cui hai voglia di guardare e non c’è bisogno di andare in Papuasia, solo di allenamento. Di fatto l’album è dedicato all’Italia, c’è amore e amarezza perché scopri delle cose bellissime ma anche orribili, in 8000 km si dice ’le ossa dei morti che rotolano dentro ai torrenti incazzati’. È un riferimento alle esondazioni che ci sono state in Liguria e che avevano addirittura travolto un cimitero. Questa è l’Italia».

Il combat folk è in una parabola discendente, sempre più relegato nei festival e molto meno legato all’utopia, alla politica e alla voglia di cambiare il mondo… «Un po’ è così ma non ho ancora capito cosa altro si cerchi! La mia unica interpretazione può sembrare obsoleta, viene da rifarmi a quanto diceva Pasolini sulla televisione: quello che c’è ora mi sembra il frutto di tanti anni di indottrinamento».
Si è perso il senso della cosa pubblica: «Al centro della società registro che al posto della comunità c’è un individualismo sfrenato e riconosco che i miei potranno sembrare dei ruggiti da vecchio leone spelacchiato ma non vedo altro. Ho un figlio di 17 anni e vedo che le nuove generazioni hanno un livello di approfondimento quasi esagerato su alcuni argomenti, ma quando devi parlargli del significato del 1 maggio o del 25 aprile diventa difficile. È sempre più complicato avere un pensiero privato».