In questi giorni in cui un po’ tutto ruota attorno alle progressive sfumature in cui è declinabile il titolo (del film, va da sé, non parla nessuno!?) del film di Paolo Sorrentino fresco vincitore di Oscar, fa un certo effetto rivedere la Roma futura, epperò ugualmente tumefatta di Ranxerox. Le strisce scritte da Stefano Tamburrini e disegnate da Tanino Liberatore tornano infatti tutte insieme e in versione integrale grazie all’editore Comicon (Ranxerox, pp. 207, € 22) in un’edizione molto bella anche negli apparati critici (di Luca Boschi e Michele Mordente) che arricchiscono ancora di più il discorso attorno a questo vero e proprio caposaldo del fumetto italiano contemporaneo.

Creato nel 1978 da Stefano Tamburrini ed uscito per primo sulle pagine di Cannibale, Ranxerox ha per protagonista, per la serie “Nuovi soggetti sociali degli anni ‘80” un vero coatto metropolitano, anzi romano, uno di quelli per tornare solo per un momento all’oggi, vanno in giro a decantare pose ne La grande bellezza, riferendosi ovviamente alla rutilante sciarada iniziale nella quale letteralmente esplode da una torta gigantesca Serena Grandi prima.

Tornando a Ranxerox e al contesto da cui molto succhia, gli anni settanta, anche alcuni di questi coatti che poi sarebbero passati per simbolo di disimpegno e alienazione sociale (e avrebbero sognato un posto in un reality o un trono su cui sedersi nella fascia pomeridiana delle nostre reti generaliste) erano anche loro parte di quel mare magnum che era chiamato movimento. Pezzi, schegge, frammenti di un mare che intanto che si era mosso sembrava non doversi fermare più e invece si è fermato eccome, così come, guarda caso, anche l’avanguardia artistica che nel teatro, oltre che nel fumetto, in Italia ha trovato il suo luogo di espressione più libero e audace.

Ranx rimanda ovviamente alla nota marca di macchine fotocopiatrici di cui infatti qui viene anche pubblicata una lettera dell’ufficio legale in cui si diffida Tanino e Liberatore dal continuare ad utilizzare quel nome per avventure completamente fuori dalla morale pubblica.

Il protagonista è dunque un coatto sintetico attrezzato come una macchina da guerra, dotato di una forza giustamente sovrumana, in grado di far saltare porte, mascelle e armature con una sola spallata, ha un poderoso membro sessuale che usa senza trovare troppo piacere ma soprattutto per soddisfare il desiderio della sua giovanissima fidanzata, la dodicenne Liubna. Lei non sembra molto affezionata a lui, lo tiene al guinzaglio per procurarsi l’eroina, mentre Ranx ama farsi di vinavil perché la sostanza oppiacea è troppo debole per i suoi circuiti.

Ad un certo punto Folaga, un “maniaco trisessuale” la rapisce e allora si vede scatenarsi la furia gorillesca del super coatto pronto a scatenare tutta la sua forza per riprendersi la piccoletta. A partire dal capitolo II le tavole di Ranxerox escono su “Frigidaire” la rivista che Tamburrini ha contribuito a fondare assieme a Scozzari e Sparagna (mentre prima i vari episodi erano usciti su “Il Male” oltre a “Cannibale”). Le strisce diventano a colori, e allora l’immaginario genuinamente cyberpunk di Liberatore può liberarsi totalmente nel disegnare nani in costume da bagno, puledre in calzoncini corti, bande di ragazzini con pistole all’acido solforico, in una Roma che sembra aver superato anche l’ultima apocalisse e ora sembra definitivamente addormentata sulla propria decadenza.

Si incontrano personaggi incredibili nelle peregrinazioni metropolitane di Ranx, come l’appassionato di incidenti automobilistici traslati in formidabili strumenti di eccitazione sessuale, omaggio evidente al Ballard di Crash. E questo personaggio finirà all’apice del godimento arrostito dentro il taxi di Ranx in estasi sperando di esser morto con in macchina uno dei feticci sessuali dello star system di quegli anni Brooke Shields.

Un nuovo rapimento di Liubna porta Ranx a Lampedua nella villa ultramiliardaria di un certo Mister Volare, “due terzi di Lampedusa gli appartengono! Un tempo era un famoso cantante di musica leggera, ora è semplicemente proprietario della più importante multinazionale dello spettacolo del mondo!”.

Arrivato al cospetto di questo mogul plastificatosi per resistere alle contaminazioni del tempo, Ranx ha l’occasione di ascoltare da questo demone mediatico un vero e proprio sermone su quello che ci si sarebbe potuto aspettare nei prossimi anni. “il consumo delle immagini al minuto secondo ha raggiunto negli ultimi anni un livello di guardia! Tra i dieci milioni di stazioni video e Radio nella sola Bassitalia, l’Olocinema, i due miliardi di periodici a fumetti e a foto, i laser dischi, la masti cassette auto registranti, i compuconcerti, etc. tra cinque anni ci attende la noia mortale! Capisci? Negli ultimi due anni abbiamo voltato e rivoltato i revival degli anni ’10, ’20, ’30, ’40, ’50, ’60, ’70 e ’80 almeno trenta volte e abbiamo lanciato almeno venti stili per gli anni ’90! Ricordo tutte le definizioni che abbiamo dovuto inventare, dal ridicolo “post-moderno” all’attuale “nichilismo post-era manageriale!”.

Sono molte le sottotrame che si aprono e si chiudono in questo vagare metropolitano che ad un certo punto si sposta nella metropoli novecentesca e contemporanea (al novecento) per eccellenza, cioè New York.

Le differenze con Roma non sembrano poi molte, anzi forse solo la violenza suburbana esplode con più facilità. La sporcizia, l’indifferenza, lo sberleffo di tutto ciò che è intimamente umano (la coscienza, la pietà, l’affetto, l’amore) sono messi ugualmente in secondo piano.

Le avventure di Ranxerox da un certo punto in poi si convogliano attorno all’irrequieto e ambiguo personaggio di Lubna, la ragazzina selvaggia, precoce in tutto, nel sesso, nell’uso della droga, in quell’apatia indifferente ai sentimenti che sembra essere un sottofondo costante delle strisce. E questo cyborg malmenato, tradito, allontanato arriverà perfino a farci provare un qualcosa di simile alla compassione. Un qualcosa di strano se rivolto verso un coatto sintetico dei bassifondi, eppure in fondo plausibile per quegli anni ottanta nei quali la scoperta dell’effimero metropolitano era qualcosa di nuova, forse un’ultima epifania del moderno. Oggi si farebbe fatica a distinguerlo da quel grande nulla che Jep Gambardella pensava di dover inseguire pensando di essere sulle orme di Flaubert.