Se dovessimo individuare e indicare un equivalente letterario della cosiddetta «televisione del dolore», ecco che la nostra attenzione si rivolgerebbe senza esitazioni al romanzo biografico. Nel qual caso, non potremmo nemmeno ricorrere a quella formula critica tanto cara a Marco Belpoliti, secondo cui ciò che in ultima analisi conta è che il manufatto di uno scrittore si legga benissimo – ché poi, questo farsi leggere senza inciampi, in maniera scorrevole e tutta in discesa, altro non è se non il vecchio portato, forse l’unico, dell’intrattenimento.

Perfino sotto questo aspetto, non sempre il risultato sarebbe da ultimo garantito, visto che la noia possiede intelligenza diabolica e trova per raggiungerci fessure sottilissime e invisibili a occhio nudo, senza inoltre contare che si tratta di un sentimento soggettivo. Il romanzo biografico, dunque: esso ha necessità di personaggi esemplari e possibilmente assunti nel proverbiale pantheon delle vite difficili, complicate, dannate, infelici, turbolente, drammatiche o, meglio ancora, tragiche.

A farne le spese, nell’ultimo trentennio, sono stati ad esempio, tra gli altri, Nietzsche, Caravaggio, Camille Claudel, Dino Campana, Frida Kahlo, Artemisia Gentileschi, Baudelaire. Li si prende, si dà loro voce, pensieri, movimenti e gesti, privilegiando sempre una parte per il tutto secondo le regole della pornografia. Le loro opere contano – ammesso che contino – soltanto in relazione alle dolorose evenienze esistenziali, in una sorta di corriva, assordante amplificazione del metodo di Sainte-Beuve.

La schiera, si capisce, è potenzialmente infinita, e difatti la galleria si va ad arricchire adesso con il romanzo dello svizzero di lingua tedesca Ralph Dutli (classe 1954, nato a Schaffhausen) intitolato L’ultimo viaggio di Soutine (Voland, traduzione di Chiara Caradonna e Flavia Pantanella, pp. 255, euro 16,00) e che vede al centro (per l’appunto) la figura di Chaïm Soutine raccontato nei giorni finali dell’agonia e della morte, con accanto la sua compagna Marie-BertheAurenche, che fu la seconda moglie di Max Ernst.

Il viaggio al quale si riferisce il titolo è quello che dalla provincia conduce a Parigi il pittore, in un carro funebre (le ambulanze erano impegnate altrove, nel tragico agosto di guerra e nella Francia occupata), in un estremo tentativo di salvargli la vita mediante un intervento chirurgico. Soutine, nel corso di quelle lunghe ore, riattraversa la sua vita per tentarne un bilancio. Le nevrosi, gli impulsi autodistruttivi, l’isolamento e, ancor prima, gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, tutto passa nella mente dell’artista.

La dolenza è il timbro di Dutli. La sua prosa risulta congestionata da un surplus di sentimentalismo, turgida di emotività e di feticismo, esornativa. Due esempi.

Il primo: «Soutine è steso nel suo letto di un bianco abbagliante e pensa in effetti alla parola “felicità”, che a quanto pare nella sua vita sembra sentirsi del tutto estranea.» Proprio questa deve pensare, tra tutte le parole possibili? È davvero necessario?

Il secondo: «L’anima di Soutine però era spensierata e non si fece intimidire da minacce e pugni chiusi. Non le era più vietato dipingere, e nemmeno volare. Finalmente si sentì libera, e sembrava quasi che ridesse. L’anima di Soutine rideva di un’ebbrezza luminosa». Chiediamoci: ma questa prosa si legge benissimo?