Domani anche quest’anno finirà. C’è sempre qualcosa di ambiguo nel far festa che questa data ci impone. Esempio ipercontemporaneo la vicenda dell’algoritmo di Facebook che ha suggerito a tutti di celebrare un «anno meraviglioso», suscitando la reazione di un padre che si è visto pubblicare la foto della figlia scomparsa. A voler essere ottimisti, questi incidenti «tecnologici» – ma dietro ogni tecnologia per ora continua a esserci quel «difetto» umano – forse ci inducono a riflettere meglio sul nostro modo di pensare e di comunicare.
La parola fine, per esempio, è un bel problema. Alcuni anni fa le femministe del gruppo del mercoledì pubblicarono un testo sul Coraggio di finire (http://www.donnealtri.it/2009/04/il-coraggio-di-finireriattraversare-la-fine-puo-rivelarsi-uneducazione-sentimentale/) : con finezza e azzardo vi si parla del rapporto tra la fine della vita e la fine di certe cose della vita, per esempio di una certa politica di sinistra. «La sinistra – vi si legge tra l’altro – ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento». E d’altra parte «non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire».

Fine oltre che limite, solco che divide e fa cessare un territorio, una vicenda, una vita, vuol dire anche gradevole, elegante, bello. E un pensiero fine è anche penetrante, come una lama sottile. Pare le che le etimologie siano diverse. Ma è intrigante questa parentela tra finezza e finitezza.
L’ideale sarebbe appunto, come si dice, finire in bellezza, andarsene o cessare qualcosa con stile. Permettendo e favorendo quel nuovo inizio che, lo vediamo proprio a sinistra, non nasce se non è preceduto da un accorto commiato.

In quel testo ci si interrogava anche se non fosse una maggiore virtù femminile quella di saper finire. La rivista della Libreria delle donne di Milano, Via Dogana, per esempio, ha deciso di chiudere con il numero di questo dicembre. Ma le sue animatrici, pur manifestando anche un certo sentimento di lutto, si dicono certe che quella ricerca e quella pratica politica possa proseguire e rilanciarsi con più energia e efficacia. A volte penso – guardando alle tristi vicende dell’Unità e di Europa – che forse un gesto simile avrebbe potuto produrre qualcosa di veramente nuovo e positivo.

Ieri sulla Repubblica c’era un impressionante sondaggio sulla fiducia nelle «istituzioni»: in cima a tutte il Papa (87), in fondo in fondo, all’ultimo posto, i partiti politici (al 3! E in ulteriore calo negli ultimi tre anni). Anche in questo c’è una lezione: una certa tradizione del papato e della chiesa è finita con lo straordinario avvicendamento tra Ratzinger e Francesco. Nulla di simile forza simbolica, pur tra tanti conflitti e cambi di nome, cessazioni e riaperture, hanno saputo fare gli uomini del sistema politico rappresentativo.
Anch’io, nel mio piccolo, mi sono posto il piccolo problema se finire, dopo un anno esatto, questa piccola rubrica. Diciamo che esito, scommettendo sul fatto che non finisca questo giornale: saprà essere l’eccezione alla regola del morire per rinascere?

Finisco con un ricordo: ho avuto la fortuna di assistere a uno degli ultimi concerti di Richter a Roma. Chiuse il programma eseguendo l’ultimo pezzo dell’Arte della fuga di Bach, che è incompiuto. Arrivato alle ultime note che si assottigliano e cessano improvvisamente si è fermato un attimo e ha abbassato il coperchio della tastiera, conquistando un momento di assoluto silenzio prima degli applausi. A qualcuno è concesso di lasciarci capolavori senza fine.