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In un punto la lingua dello spazio

In un punto la lingua dello spazioKazimir Malevich, «La cavalleria rossa», 1932 ca. Museo Statale Russo, San Pietroburgo

Poeti russi Due importanti traduzioni: i prodigiosi concentrati poetici di «Quasi leggera morte», ottave a cura di Serena Vitale, per Adelphi; e il primo dei «Quaderni di Voronez», da Giometti & Antonello

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 21 maggio 2017

«E’ come avere accanto Virgilio vivo, Puškin, nel minore dei casi»: così il giovane ricercatore Sergej Rudakov, che alla metà degli anni trenta del ventesimo secolo aveva scelto per il confino la non troppo remota e persino ridente cittadina di Voronež, dove già era esiliato Osip Mandel’štam. E lì, fianco a fianco con il genio che studiava, si era trovato coinvolto in un prodigioso laboratorio creativo che proprio il forzato ma benefico isolamento aveva innescato.
Vagando tra le quattro pareti di legno di una camera con vista sul fiume, il poeta borbotta, gli occhi sbarrati, indifferente a tutto, ascolta e rimugina il torrente che gli «ditta dentro», elabora e disfa strofe, tiene lungamente a memoria quanto ha raffinato, per poi cederlo, comunque in una moltitudine di varianti, ai suoi fidi collaboratori.

Dimenticato dal mondo e in qualche modo dimenticato anche da quel potere sovietico che nel 1938 l’avrebbe mandato a morire nei campi di lavoro siberiani, Mandel’štam al confino ha la piena consapevolezza di scrivere per l’eternità, nella quale è da sempre immerso. E di quanto i suoi oscuri e intricati versi degli anni trenta siano ormai patrimonio ineludibile della poesia mondiale testimoniano con singolare sintonia ben due versioni italiane: Quasi leggera morte Ottave, per la cura di Serena Vitale (Adelphi, pp. 91, euro 10,00) e Quaderni di Voronež Primo quaderno (Giometti & Antonello, pp. 108, euro  16.00) curato da Maurizia Calusio, prima tappa di un articolato progetto che l’editore maceratese intende dedicare all’eredità di Mandel’štam.

Le Ottave sono lacerti e prodigiosi concentrati poetici, summa dei mezzi espressivi dell’autore e insieme prodotto residuale di più estese poesie, rimuginate tra mente e labbra tra il 1932 e il 1934, solo parzialmente messe per iscritto prima dell’arresto di quell’anno, estratte in brogliacci dalla moglie Nadežda dai cuscini dov’erano sfuggite alla perquisizione e portate a Voronež per ricostruzione e fissazione. Custodite dopo la morte del poeta dalla memoria e dai codici clandestini della moglie, pubblicate integralmente solo nel 1981, le ottave – in tutto undici – sono tra i testi mandel’štamiani più citati e commentati, e trovano oggi, fatta salva una dimenticabile versione in rivista nel 2007, una prima edizione italiana di assoluto pregio. Questi frammenti densissimi in sé conclusi, mirabilmente cesellati eppure abortiti, casuali, legati e specchiati da occulti e palesi nessi tra gli uni e gli altri, sintetizzano in un’astrazione siderale tutti i motivi fondanti della poesia di Mandel’štam: la natura organica della parola, l’esplorazione dei dedali dove nasce e dove fugge, una volta generata, la significazione, le architetture vivificate, l’intrico di rimandi, interni e intertesti, dissimulato e fin irrilevante nella cristallina icasticità di una lettura superficiale tanto ambigua quanto scolpita, incisiva, radiante. Nessuna traccia del tanto tormentoso presente, né dell’’io biografico, solo il reticolo del vocabolario poetico essenziale di Mandel’štam, fatto di tessuto, conchiglie, foglie, cattedrali, esperienza, eternità, farfalle che cedono le proprie ali-sudari a donne musulmane ammantate ma anche a pareti di moschea decorate dei loro innumerevoli occhi.

In otto versi disposti in due quartine tra le quali lo iato straniante è spesso forte si raggiunge una concentrazione di immagini che per il lettore attento, anche in italiano, può risultare abbacinante; così, in una poesia che può essere una proiezione en abyme dell’intera serie, di un abbozzo distrutto resta un solo periodo, ora nel buio saturo della mente, mentre prima stava «alla carta,/ come la cupola ai cieli vuoti»: la sovrapposizione spaziale carta=cupola, induce a una seconda, tra cielo e terra/pavimento, mentre l’identificazione più profonda è quella tra mente, dov’è ora il periodo residuale, e cielo: insomma, una metonimia doppia con un groppo di vuoto metaforico al centro; l’emozione incontenibile è tutta nella percezione del vuoto in tanto accumulo di significazione, come nei non meno famosi «forse il sussurro nacque prima delle labbra,/ e senza alberi mulinavano le foglie».

Ugualmente densi, ugualmente indistricabili gli uni dagli altri, senza titoli né soluzione di continuità sono i versi scritti in esilio e raccolti con pura denominazione di servizio come Quaderni di Voronež. Già tradotti da Maurizia Calusio nel 1995, tornano ora – in un primo volume relativo alle poesie composte tra l’aprile e il luglio del 1935, cui seguiranno il secondo e il terzo quaderno – in una versione interamente rivisitata, anche sulla base di una nuova edizione critica del testo russo. Qui per la prima volta Mandel’štam si fa apertamente autobiografico, montando a mito i trasferimenti e i luoghi di residenza forzata, i tre sgherri della scorta e i tentativi di suicidio, allarga la sua tavolozza lessicale agli strati più bassi e prosaici, rende vibrante e vischioso il tessuto fonico, prova a mettersi in relazione con la realtà contemporanea tramite timide concessioni sempre intrise d’ironia e doppi sensi, che in testi di esponenziale difficoltà di lettura appaiono persino risibili a fronte dell’ormai imperante realismo socialista, ma per le quali non mancherà di accusarsi di opportunismo. Le parole focali e i motivi si intrecciano e si rincorrono di poesia in poesia, di ciclo in ciclo, da uno spunto infinitesimo nasce un nuovo testo e interi versi si ripetono funzionalmente in testi diversi: un’intensissma descrizione della terra nera «tutta piccoli garresi, tutta aria e cure,/ tutta che si sbriciola, tutta che fa coro» implica già che quella terra fertilissima evocherà e annullerà altrove il motivo del presentimento della morte (con la gloria futura): «sì, sto nella terra e muovo le labbra/ ma quello che dico lo imparerà ogni scolaro».
Entrambe le versioni sono corredate da un imponente apparato di note e da articolate introduzioni: elegante, da vera scrittrice, costruita per nuclei contigui nella migliore tradizione derivata da Ripellino quella di Serena Vitale; molto più sobria e accademica quella di Maurizia Calusio, preziosissima nella ricostruzione del laboratorio creativo e della storia del testo. Altrettanto coerente e precisa è la sua traduzione, professionale e a tratti coinvolgente, anche se nel complesso indirizzata verso quel letteralismo filologico che non può mai restituire la genialità dell’autore, letteralismo qui accentuato anche dalla normalizzazione delle irsure neologistiche e di registro.

Dall’altra parte le traduzioni di Serena Vitale sono splendide, allo stesso tempo fedeli e meditatissime, con l’obiettivo di trasmettere, almeno in parte, la prodigiosa densità del testo di partenza. Se ne conserva mirabilmente la polisemia e la sintesi espressiva, la compattezza fonica e l’intensità ritmica, senza mai cedere alla tentazione, oggi così diffusa, di inseguire l’equivalenza metrica o di far emergere gli intertesti espandendo e parafrasando (della sterilità anche sul piano critico della caccia al tesoro intertestuale Vitale dà anzi un’efficace e altamente condivisibile esemplificazione nel commento). Insomma, fidandoci di Mandel’štam, meglio sempre restare alla «lingua dello spazio, compresso in un punto».

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