Romanzo d’esordio di Wyl Menmuir, ora disponibile per Bompiani nella traduzione puntuale di Tommaso Pincio, Al largo (pp. 160, euro 16,00) si propone come una lettura guidata dall’autore pericolosamente rasente i percorsi obbligati delle convenzioni di genere, ma equipaggiata di un apparato stilistico freddo e avvolgente, che inchioda i lettori dopo averli attratti all’ombra di una parabola suggestiva, ambiziosa nella struttura e ammiccante nelle trame linguistiche, per infine abbandonarli all’inquietudine profonda di un’ossessione.
Lo scenario è quello prima gotico, poi distopico e sempre sul punto di scivolare nell’horror, di un mare mortifero e inquinato in seguito a un disastro ambientale. Le acque vengono scrutate dai pescatori di un paesino della Cornovaglia, dove la simbiosi con il paesaggio è tale che l’umore della comunità «cambia con l’erratica rapidità con cui cambia il mare». Il loro orizzonte appare perlopiù irrequieto, rigurgita pesci sfibrati e morenti, e si avvia a prendere la forma minacciosa di una flotta di navi allineate al largo della costa per circoscrivere l’area dove è consentito pescare.

Solo in un paio di occasioni, peraltro, le barche non tornano con le reti vuote, a dispetto di una pratica quotidiana e ostinata nei suoi riti, ignara di ogni convenienza e proprio per questo circondata da un’aura mitica, primordiale.
L’unica manifestazione della responsabilità dell’inquinamento che ha stravolto l’ambiente – forte l’eco della serie Black Mirror con la sua rielaborazione dei risvolti imprevedibili e fatali della tecnologia – sono gli uomini inespressivi e meticolosi che giungono da fuori a comprare il pescato, o meglio a requisirlo, fra mille premure affinché non sfugga nemmeno un pesce. A guidarli, una figura femminile enigmatica e gravida di sensi oscuri, a sua volta riflesso di un’atmosfera sospesa e ruvidamente allegorica.

A renderla tale è in molte scene una sonorità problematica, disturbata, che costruisce le immagini tipicamente sorde e sfocate di certa science fiction. E il silenzio è a sua volta impersonato dagli abitanti schivi del villaggio, infastiditi dall’arrivo da Londra di Timothy, il quale si è stabilito in una casa abbandonata molti anni prima, quando il padrone è morto in circostanze misteriose. Come spesso accade, del resto, dove cicatrizzano le ferite della tecnologia prolifera la superstizione.

Così, i pochi rumori che si stagliano nel silenzio diventano presagi inquietanti, come il vociare ubriaco che proviene dal villaggio o «le grida insopportabili» dei gabbiani irritati da Ethan e Timothy, l’unica volta che infrangono le Colonne d’Ercole delle navi e si spingono oltre per pescare. A fronte di un ambiente indistinto e aggressivo, nel racconto abbondano i verbi che alludono alla percezione, sempre in terza persona e al presente, ad accompagnare i due protagonisti – il pescatore Ethan e Timothy – nello sforzo di comprendere quanto vedono e sentono, in un affannoso tentativo di riordinarne i ricordi e il non detto, le assenze e le colpe, nonostante le resistenze interiori degli altri personaggi e persino del paesaggio intorno. Come se Ethan e Timothy intuissero il desiderio insopprimibile di una catarsi dolorosa e di una presa di coscienza forse distruttiva. Tant’è che a metà romanzo la narrazione si condensa, in un crescendo lisergico di percezioni aggrovigliate e sfumate, sebbene mirate a un’esplorazione in qualche modo ancorata al raziocinio.

E se non vengono meno gli eventi e gli svelamenti, anche violenti, di una trama comunque fluida e avvincente, voci e profili onirici si intensificano e la lettura si fa incalzante, impegnativa, quasi sconvolgente, in un affastellarsi sinistro di premonizioni e simbolismi, mentre un passato tragico torna, irrisolto, ad annichilire il presente.