«Per le ardue solitudini del Parnaso mi trascina un dolce amore»”, scrisse Virgilio nelle sue Georgiche, citato secoli dopo da Petrarca quando fu «incoronato» poeta. Ho pensato e ripensato a queste parole giocando a Death Stranding, o meglio vivendoci dentro, con quella partecipazione convinta, appassionata e faticosa con la quale possono avvincere i grandi videogame. Perché tra le brulle e petrose terre di questo Parnaso digitale (non ci sono le Muse ma è così evidente il loro lavoro sulle arti diverse che compongono questo interattivo affresco anti-apocalittico), dopo viaggi spossanti ed esaltanti, una solitudine straziante e le difficoltà innumerevoli non è mai venuto meno quel sentire amoroso che l’ultima opera di Hideo Kojima alimenta e ispira, proponendo uno degli obiettivi più alti della storia del videogame: connettere le persone, non lasciare che si perdano nell’abbandono. Non importa che si tratti di personaggi numerici, Death Stranding ci fa comunque combattere una pacifica battaglia contro l’emarginazione in un luogo dell’immaginario, lanciando tuttavia, come tutti i capolavori, un messaggio filosofico e politico che va oltre il suo contenitore mediatico e artistico.

Death Stranding, per Playstation 4, ci fa giocare e lavorare nell’accezione latina di «labor», durante un’apocalisse che perdura, non attuandosi mai nella catastrofe finale ma prolungandosi in un’agonia senza fine. Infranto il confine tra la vita e la morte, tra la materia e l’anti-materia, l’America di Hideo Kojima è un luogo dalla bellezza struggente, battuto da piogge che alterano lo scorrere del tempo, percorso da metafisiche entità dall’altrove che ci trascinano in luoghi bituminosi e liquidi come fogne cosmiche, abitato da esseri umani impazziti oppure isolati in avamposti o scheletri di metropoli. Nel corpo dell’attore Norman Reedus si diventa dunque Sam Porter Bridge, il corriere che dovrà attraversare gli Stati uniti defunti dall’est all’ovest per connettere i sopravvissuti in una nuova rete di rapporti umani. Kojima esalta e poetizza l’importanza sociale del «messo» moderno, il corriere, il postino, il fattorino, attraverso una simulazione delle fatiche e degli oneri, dei fallimenti e dei successi di un’intera categoria di lavoratori.

Ecco quindi che connetteremo donne e uomini isolati -infine persino la coscienza del protagonista con il suo subconscio- trasportando oggetti di varia tipologia e ingombro, caricandoci di pesi fino a vacillare, percorrendo chilometri attraverso pianure erbose, guadando torrenti, inerpicandoci per declivi rocciosi, annaspando sulla polvere e sprofondando nella neve. È questo il cuore ludico di Death Stranding, il viaggio e la sua organizzazione. Ma non siamo del tutto o propriamente soli, perché grazie ad un multiplayer asincrono possiamo cogliere le ombre di altri giocatori in cammino come noi, ricevere aiuti che non speravamo e nel contempo aiutarli come possiamo. Death Stranding si può giocare anche sconnessi dalla rete, risultando così ancora più doloroso e complesso, ma percepire le tracce di altri, vedere sorgere un ponte laddove era impossibile attraversare un fiume, trovare un paio di stivali di ricambio lasciati in dono da uno sconosciuto proprio quando i piedi cominciano a sanguinare è un balsamo tra tanto abbandono, così come quando aiutiamo ignoti giocatori.

Che poi, anche giocando offline, non siamo mai comunque davvero soli perché con noi c’è BB, un feto che galleggia in un contenitore colmo di liquido ambra, un bambino mai partorito e usato come accessorio per rendere visibile l’altrove e le sue creature. Tuttavia con BB si instaura un rapporto «paterno» molto potente, realizzando la sua esistenza oltre la sua utilità.
Trattandosi di Hideo Kojima, autore di videogame e insieme regista di un cinema dissimulato nel gioco la cui cifra estetica e teorica è quella di un Orson Welles o di un Akira Kurosawa post-punk, la narrazione di Death Stranding è straordinaria, intrecciando gioco puro alla non-interazione, consegnando la regia al giocatore o togliendola per impadronirsi delle sue emozioni. Ci sono lunghe e dosate cinematiche che possiedono una ritmica della suspense che provoca ansie hitchcockiane, la precisione naturalista e gelida di Cronemberg, l’eleganza dei piani-sequenza di Brian de Palma, l’iperbole melodrammatica e coreografica di John Woo. Tuttavia, malgrado i richiami, sono soprattutto l’unicità di Hideo Kojima come autore e la sua maestria a comporre il panorama visivo di Death Stranding, a renderlo, con una malia da regista veterano di un cinema estinto, un «unicum» fluviale. Risulta impressionante, mai visto in un videogioco, il lavoro svolto con gli attori, un cast stellare composto, oltre che da un Reedus mai così bravo, dalle meravigliose Lea Seydoux, Lindsay Wagner e Margaret Qualley, dai registi Gullermo del Toro e Nicolas Windig Refn, da Mads Mikkelsenn, Troy Baker e Tommie Earl Jenkins.
Curioso e persino deprimente che le tante critiche, molte delle quali a priori, che hanno preceduto e stanno accompagnando il lancio di Death Stranding si siano concentrate sulla possibile noia causata dall’essere dei fattorini virtuali e al fatto che Kojima abbia sviluppato un «film interattivo».

Innanzitutto a Death Stranding si gioca molto, in tanti modi e si guarda meno che in altri lavori dell’inventore di Metal Gear Solid, quindi il trito ed erroneo luogo comune sul «film interattivo» risulta becero a chiunque stia esperendo l’opera. Gestire le proprie risorse prima di una partenza è fondamentale e strategico, ogni spostamento offre diverse e improvvise avventure, si possono guidare camionette e moto (sebbene per tratti parziali, camminare è l’azione più importante), decidere di collaborare con gli altri giocatori per creare un strada, leggere lunghi e suggestivi documenti, suonare la fisarmonica per calmare BB piangente, infiltrarsi nei campi di corrieri-maniaci detti Muli, affrontare creature pseudo-lovecraftiane con granate ricavate dal sangue, le feci e l’orina del protagonista. Possiamo anche sparare, persino uccidere, ma guai a farlo, ci spiega il gioco, perché qui la morte è un evento catastrofico in grado di provocare danni simili ad esplosioni nucleari. Per molti è proprio questo il problema, il timore che si spari poco e soprattutto che uccidere, anche se per gioco, causi tragiche conseguenze. È vero, non si spara quasi mai e se si decide di farlo è meglio solo con armi non letali, ma ciò potrebbe cambiare il nostro modo di giocare futuro, troppo condizionato da un’industria che preferisce ancora farci divertire con la guerra, lasciando la sperimentazione agli «indie».

Salvo rarissimi momenti che ci impongono a ricominciare come dopo un Game Over, in Death Stranding non c’è la morte perché il protagonista non può perire. Quindi non temiamo per il nostro avatar, ma per la sicurezza e la salute del nostro carico. L’oggetto di una fatica che ci rende umani perché in quanto tali portiamo sempre qualcosa a qualcuno.
Per un utilizzo della musica calcolato con una devastante precisione come motore di emozioni, da giocare con lentezza fino al climax finale perdendosi e ritrovandosi in gratificanti e rivelatrici missioni secondarie di consegna, programmato per raccontarci dell’oggi e ammonirci dei suoi orrori senza disperarci ma ispirando la speranza umanistica della cooperazione, con la sua regia e la sua letteratura non-violenta, con la fatica di gravi fardelli e la quiete della contemplazione, con la sua anima «indie» nel corpo di colossal, Death Stranding risulta il gioco della generazione, forse del nuovo millennio, accanto a opere definitive come Shadow of the Colossus, Legend of Zelda Breath of the Wild, Dark Souls o Red Dead Redemption 2.
L’ultima idea di Hideo Kojima è un’opera sperimentale e di rottura che dimostra come anche con l’alfabeto del videogioco, con le sue note e i suoi colori, si possano scrivere, comporre e dipingere gli struggimenti e gli aneliti dell’umanità tutta.