Un affare di famiglia – il titolo italiano per Shoplifters – Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes – dove il regista giapponese è stato in concorso diverse volte – inizia come una commedia. Perfettamente coreografati in quella che sembra un’operazione di routine quotidiana, un uomo di mezza età (Lily Franky, abituale collaboratore dell’autore) e un ragazzino (Kairi Jyo) si servono gratuitamente dagli scaffali di un supermercato. Ho dimenticato lo shampoo si rammarica il giovane, sulla strada di casa, dove i due si fermano a osservare dalla fessura di un terrazzo del primo piano una bambina piccola dall’aria sparuta e triste. «È di nuovo qui», dice l’uomo.

Cut, e se la sono portati a casa, un antiquato edificio di legno circondato da grossi condomini di cemento, pieno zeppo di masserizie e in cui li attendono una signora anziana (Kirin Kiki), che tutti chiamano «la nonna» e due donne. Che accolgono la minuscola nuova arrivata con calore.
Nulla è quello che appare nell’ultima famiglia del regista giapponese di Ritratto di famiglia con tempesta ( 2016). Alla fine, tutto sarà quello che appare, anche se non lo è. In questa sua ultima, geniale, meditazione sul nucleo famigliare, Kore-eda riprende il tema di Father and Son (e cioè il rapporto tra legami di sangue e gli affetti costruiti nel tempo, tra genitori e figli) sullo sfondo di una riflessione più ampia e critica sul Giappone contemporaneo che ci riporta a uno dei suoi film più belli, Nessuno lo sa.
«Negli ultimi anni, la differenza tra classi in Giappone è cresciuta molto. Un numero sempre maggiore di persone non viene raggiunta dal sistema di assistenza che dovrebbe sostenerla», ha detto Kore-eda in un’intervista pubblicata su «Screen», raccontando di essere stato ispirato dalla storia di una famiglia che, non avendone riportato il decesso, aveva continuato a ricevere la pensione degli anziani genitori dopo la loro morte.

La famiglia Shibata vive di espedienti simili, poveri e ai margini, i ragazzini sempre sporchi e arruffati, svelano un Giappone invisibile, in aperto contrasto con quella di potenza economica vincente.
La nonna utilizza sussidi del ricatto alla famiglia dell’amante di suo marito, la più giovane delle due donne si esibisce i davanti a clienti arrapati da dietro al vetro di un locale di peep show. L’altra ha un lavoro che però perde presto – l’economia ci obbliga a licenziare una di voi due, dice il boss alle impiegate, mettetevi d’accordo su chi se ne va.

Quando l’uomo, Osamu, si rompe un piede lavorando, non gli danno nemmeno l’invalidità. Meglio quindi vendere i proventi delle ruberie che effettua con il teen ager Shota. Un ladro abilissimo. Che progressivamente diventa la coscienza del film. È una situazione precaria e caotica, dickensiana, ma densa di affetti, in cui – dopo un’iniziale esitazione- Noboyu (Ando Sakura, fantastica), la compagna di Osamu, accetta anche la bimba. Tecnicamente parlando l’hanno rapita ma, visto che i suoi la picchiavano e non le davano da mangiare, la loro è una buona azione. «La famiglia è meglio se si può scegliere» ripete spesso Noboyu quasi a opporre al «naturale» della maternità la bellezza di una relazione costruita appunto sulla scelta. Ma se anche la famiglia «invetata» contenesse delle contraddizioni parte della sua natura? Tutto dipende da come si guardano le cose, dal punto di vista – a scuola ci vanno solo quelli che non possono permettersi di studiare a casa, dice Shota – che non ha mai visto un’aula in vita sua – con orgoglio.

Ancora una volta, Kore-eda ci impone un aggiustamento dello sguardo ci invita a mettere in dubbio le superfici, i cliché – nella texture della commedia si nascondono trame dark, forse persino un omicidio.
Gli Shibata vivono ai margini, una sorta di resistenza – alla gentrificazione (il loro misero bungalow soffocato dal cemento), alla legge (finché le cose sono in un negozio non sono di nessuno, quindi prenderle non è rubare, spiega Osama a Shota), alle convenzioni, alle norme sociali.
Ma questo (loro) fragile, complicato, microcosmo della sopravvivenza che si svela davanti ai nostri occhi in un sovrapporsi di durezze, tenerezza e incongruenza –e che esploderà in vari colpi di scena nell’ultima parte del film – rivendica una logica degli affetti, della priorità e dei valori che è una lezione per tutti.