Il presidente Yoweri Museveni alla fine ha scelto di non firmare la dura legge anti-omossessuali varata il 19 dicembre scorso dal parlamento ugandese, che prevedeva pene fino all’ergastolo per i trasgressori e carcere anche per omessa denuncia, nonché impunità garantita a chi avesse ucciso un omosessuale. Ma attenzione, la motivazione non riguarda la natura particolarmente liberticida e omofoba del provvedimento, quanto il fatto che in aula, al momento di votare quello che la speaker del parlamento Rebecca Kadaga aveva definito «un regalo di natale per gli ugandesi», accelerandone improvvisamente l’iter, semplicemente mancava il quorum.

D’altro canto Museveni resta convinto che l’omossessualità sia «una malattia» e che come tale vada curata. Una «anormalità», un «errore della natura». Lo spiega nella lettera inviata al parlamento per spiegare la sua decisione (il contenuto è stato diffuso ieri dai media locali). Ora la Camera in teoria potrebbe ripresentare la legge e aggirare il veto approvandola con una maggioranza qualificata di due terzi, ma i numeri sono dalla parte di Museveni. Che così facendo è riuscito a dribblare il pressing indignato della comunità internazionale, la minaccia di sospendere aiuti e finanziamenti nonché l’irritazione del principale partner e alleato dell’Uganda, gli Stati uniti (Obama aveva definito «odiosa» la legge in questione).

Allo stesso tempo il presidente ugandese ha mantenuto il punto sul fronte interno, chiarendo che «non è possibile parlare di “orientamento sessuale alternativo” come si fa nei paesi occidentali, dove una cattiva educazione ha finito per generare molte persone anormali». Molti gay e lesbiche, sostiene inoltre Museveni, nonostante una legge così severa avrebbero continuato a «praticare l’omosessualità in segreto per ragioni esclusivamente mercenarie». E se lo fanno per soldi, sembra voler dire il presidente, la cura esiste, ed è di natura squisitamente economica: solo lo sviluppo e il benessere riusciranno a tenere lontani i giovani dal proselitismo della lobby omosessuale.

Nella lettera Museveni non manca di sgridare i parlamentari che hanno tentato il colpo di mano: «Come avete potuto votare una legge senza disporre del quorum? Come è possibile che sia proprio il parlamento a infrangere la Costituzione e la legge ripetutamente?», ha scritto. La legge “incriminata” porta la firma di David Bahati, quarantenne deputato del National resistance movement (Nrm), il partito di governo. Proposta nel 2009, era finita su un binario morto anche in seguito alle proteste internazionali. Ma le ragioni per cui Museveni sente di aver subito un oltraggio dal parlamento sono legate al fatto che d’accordo con il primo ministro Amama Mbabazi aveva messo al lavoro una commissione di esperti per tentare una riconversione della legge che puntasse più al «recupero» che alla criminalizzazione. Il testo originario invece puniva ogni genere di relazione e comportamento omosex, colpiva le organizzazioni che si battono per i diritti dei gay, dava la possibilità di incriminare gli ugandesi all’estero e gli stranieri in Uganda. E inaspriva le pene fino a contemplare l’ergastolo per i recidivi. Nella prima bozza era prevista anche la pena di morte nel caso in cui un gay sieropositivo avesse avuto rapporti con un minore.

Ma l’Uganda già non era un paese per gay (al momento l’omosessualità è un reato che si può punire con pene fino a 14 anni). E certo non lo diventerà ora. Né lo sarà in tempi rapidi la Nigeria, il cui presidente Goodluck Johnatan ha invece firmato, anche qui tra le proteste internazionali, una legge che segna una stretta omofoba in un paese che però ha abbastanza petrolio da potersene infischiare delle pressioni esterne.