Ieri, 71° anniversario della liberazione del Donbass (l’intera campagna si concluse il 22 settembre, ma Donetsk, allora Stalino, fu liberata dall’occupazione tedesco-italiana l’8 settembre 1943) e inizio delle manovre Nato «Sea Breeze» nel mar Nero, con la partecipazione anche di naviglio ucraino; non sembra una giornata da poter ricordare come positiva dal punto di vista delle prospettive di pace nel sudest ucraino. Se da una parte, sia Kiev sia le milizie (queste, avrebbero riconsegnato circa 1.200 soldati governativi; mentre Amnesty International sollecita Kiev a fermare le azioni criminali dei battaglioni volontari) hanno confermato la liberazione di prigionieri da entrambe le parti, l’Ucraina ha anche deciso di fare la voce grossa.

E lo ha fatto per bocca sia del presidente Poroshenko, sia del premier Yatsenjuk, cui nella serata si è aggiunta Julija Tymoshenko. Già nella giornata di domenica si era registrata un’ulteriore concentrazione di forze governative nell’area di Mariupol, ma ieri Poroshenko ha ordinato il regime di massima allerta e la costruzione di fortificazioni attorno alla città. Gli ha fatto da amplificatore il premier Yatsenjuk, che «ha ammesso la possibilità» dell’introduzione della legge marziale nel Donbass, nel caso in cui «questo cessate il fuoco finisca allo stesso modo dei precedenti».

Ciò consentirebbe tra l’altro, ha aggiunto Yatsenjuk, di porre l’intero paese sul piede di guerra e di trasmettere tutto il potere ai comandi militari. Ma, come sempre, l’occhio volto a occidente, gli ha fatto anche aggiungere che «i nostri partner occidentali diranno che non è la strada giusta». E non ha voluto essere da meno Julija Timoshenko, che ha chiesto a Poroshenko la convocazione urgente della Rada, per discutere il protocollo firmato il 5 settembre a Minsk, da lei giudicato «estremamente pericoloso» per l’Ucraina. Sulla scia del premier attuale, l’ex primo ministro e beniamina dei media occidentali si è dichiarata per la creazione di un Comando supremo che diriga il paese «con mano ferma»: i 3.000 morti di questi mesi, per qualcuno, sembrano pesare davvero poco.

In questa atmosfera, in cui Poroshenko sembra rivestire un ruolo ora «accomodante» e di facciata, ora da falco – ieri reparti ucraini avevano lasciato varie zone della regione di Lugansk, mentre il presidente dichiarava a Mariupol che «non concederà nemmeno un lembo di terra ucraina» – alcune note apparentemente distensive sono giunte in serata. Se, da un lato, ben poco ottimismo pare suscitare la smentita del vice Segretario generale Nato Alexander Vershbow, sulla eventualità di una dislocazione dell’Alleanza atlantica a Sebastopoli, pronunciata nel giorno di inizio delle manovre navali Nato congiunte nel mar Nero – «Abbiamo sempre rispettato le condizioni dell’accordo tra Ucraina e Russia, non abbiamo mai avuto alcun piano riguardante Sebastopoli», ha dichiarato Vershbow – più tranquillizzante per Mosca, la decisione Ue di rinviare l’adozione di nuove sanzioni, in attesa di consultazioni sulla loro sospensione.

La dichiarazione di Vershbow rappresenta un labile tentativo di distinguere la politica della Nato da quella Usa, dopo che, alla vigilia, il rappresentante permanente russo all’Onu aveva dichiarato al canale Rossija 1, che «Washington, conducendo la politica del cambio di regime in diversi paesi, mina la sicurezza mondiale. Si è violato quel sistema di coordinate internazionali cui ci eravamo abituati negli ultimi 20 anni e che consisteva nel fatto che gli attori principali collaborassero tra loro nella soluzione delle più complesse questioni internazionali».

E anche la decisione Ue ha fatto seguito alla dichiarazione del premier Dmitrij Medvedev sulla possibilità che la Russia, in risposta al nuovo pacchetto minacciato da Bruxelles (pare, contro Rosneft, Gaspromneft, Transneft, e altre), vieti il proprio spazio aereo a determinate compagnie occidentali, mentre si appresta a concedere un credito di 1,5 trilioni di rubli a Rosnefet, una delle imprese colpite dalle sanzioni.