Asli Erdogan venne arrestata nell’agosto del 2016. La notizia fece scalpore non solo all’interno della Turchia, ed anche grazie a una forte mobilitazione internazionale la scrittrice uscì dal carcere dopo 4 mesi e mezzo, gravemente provata nel corpo e nello spirito. Purtroppo la Turchia ha dovuto abituarsi a questo genere di eventi: le sue carceri sono sempre state molto popolate di dissidenti, ma dal fallito golpe del luglio 2016 la repressione ha avuto un’impennata impressionante abbattendosi in particolar modo su intellettuali e attivisti. In questo senso il processo a carico di redattori e redattrici in capo al quotidiano filocurdo ora vietato Özgür Gündem è emblematico.

Asli Erdogan

Il processo dopo essersi trascinato per anni ha subito un’improvvisa accellerata: il 14 febbraio potrebbero arrivare le condanne, dai 2 ai 9 anni per la scrittrice, fino a 15 per gli altri accusati. E intanto prosegue la campagna internazionale per chiedere che sia riconosciuta la sua innocenza.

Asli Erdogan, quale il perché di questa improvvisa svolta processuale?

Dopo anni di continui rinvii la prossima udienza è stata fissata meno di un mese fa. È stato uno choc per tutti noi che siamo coinvolti nel processo. Il nuovo procuratore ha fatto cadere le prime due imputazioni ma ha mantenuto quello di «propaganda terroristica». Per supportare questa accusa nel mio caso fanno riferimento a 4 articoli pubblicati nel 2016 : ma la cosa strana è che il giornale non è mai stato perseguito per questi scritti.

L’accusa di propaganda per la legge turca è qualcosa di molto definito, devi fare riferimento diretto all’organizzazione per la quale stai facendo propaganda e i nessuno dei 4 articoli viene nominato il Pkk. Io lo so che questa è una vendetta per aver scritto dei massacri che l’esercito turco ha compiuto a Suruç e Cizre nel 2015. Per aver detto che dei civili, fra di loro dei bambini, erano morti bruciati vivi nel corso dell’assedio.

Il procuratore mi accusa di aver detto il falso, quando quei massacri sono estremamente documentati, anche da report delle Nazioni unite. E la cosa più assurda ancora è che questi articoli invece non sono nel mio fascicolo. Hanno preso un altro articolo, di stampo letterario, e lo hanno stravolto.

Questo accanimento nei suoi confronti vuole servire da ammonimento a tutta la classe intellettuale?

Certo. È molto chiaro che il mio è un caso che deve fare da esempio. Come Osman Kavala, Ahment Altan…siamo tutti esempi. Ma è importante sottolineare che nel mio caso sono sotto accusa per dei testi astratti, in cui la Turchia non è nemmeno nominata; sono opere letterarie, quindi loro stanno attaccando la letteratura. Non ho mai visto una cosa del genere; qualsiasi scrittore ha il diritto di esprimere i propri sentimenti nel momento in cui è testimone di un crimine. Questo tipo di persecuzione è in corso dal 2016 ma in questi ultimi mesi le cose sono peggiorate ulteriormente.

Pensate anche solo alla vicenda di Ahmet Altan: prima è stato scarcerato, poi riportato in carcere pochi giorni dopo, con una procedura totalmente contro la legge. Questo è il cambiamento degli ultimi tempi: ci stanno dicendo che non gli importa della legge, che chiunque può essere punito nel momento in cui loro lo vogliano.

Dopo essere uscita dal carcere e recuperato il passaporto, hai ricominciato a viaggiare. Nel corso di uno di questi viaggi, poco più di due anni fa, hai seguito il consiglio di alcuni amici e non sei più tornata in Turchia. Cosa significa per te questo autoesilio? Non dovessi essere condannata torneresti in Turchia?

Anche se venissi assolta non penso sarebbe possibile per me vivere in Turchia. Solo due mesi fa c’è stata l’ennesima campagna denigratoria nei miei confronti. È un paese dove non rischio solo la prigione ma anche la morte. La ragione per cui sto combattendo così tanto, è che questo processo ci dice qualcosa di più della Turchia. Non si tratta del mio destino, che non cambierà: che mi condannino a cento anni o a cento giorni, io non tornerò mai più nel mio paese. Ma questo caso marcherà un punto nelle questioni di libertà di espressione: chiunque si esprima rischia una condanna.

Per me l’esilio è una realtà accettata, per quanto amara; per uno scrittore lo è ancora di più: sono esiliata anche dalle parole, i legami con la mia lingua si fanno di giorno in giorno più fievoli. E anche la persona più solitaria al mondo, quale io sono, può sentire la mancanza delle persone. Quindi, da una parte ho una grande nostalgia della Turchia, ma dall’altra l’ho ormai lasciata andare.

Perché a suo tempo ha deciso di scrivere su un giornale pro-curdo come Özgür Gündem?

In Turchia si verificano delle atrocità, in particolare sui curdi. E io credo che nessuno scrittore può concedersi il lusso di rimanere in silenzio. Cosi mi sono detta: voglio essere un testimone. Tutto qua. È una questione di coscienza: individuale, collettiva, storica e questo ha voluto essere il mio contributo; io non sono un leader o un’attivista, semplicemente difendo i diritti umani e la letteratura è forse l’unico modo, almeno per me, per agire secondo questa coscienza.

Raccontare le storie delle vittime è il modo con cui la Turchia può crescere. Abbiamo bisogno di crescere. E non c’è individuo o società che possa fare un passo avanti senza confrontarsi con i propri errori e traumi. La Turchia deve confrontarsi con quanto accaduto agli armeni, ai curdi, ai greci, agli ebrei. Punire me non rappresenta una via d’uscita.