Scrive l’Istat nel suo Rapporto 2020 sul benessere equo e sostenibile che, a seguito della pandemia, “c’è una significativa inversione di tendenza nel processo di costante miglioramento della longevità osservato negli ultimi anni, soprattutto in alcune aree del paese”. Detto in cifre, la speranza media di vita è arretrata da 83,2 anni a 82,3, con particolare ampiezza in Lombardia, regione in cui nel 2020 la mortalità si sarebbe presa ben 2,4 anni di vita. Colpa del virus venuto dalla Cina, si potrebbe aggiungere.

Tutto troppo semplice. Nel citato Rapporto si rileva che “I dati di mortalità Istat per livello di istruzione mostrano tuttavia, nel periodo pre-pandemico, significative disuguaglianze a sfavore delle persone meno istruite. Le diseguaglianze sociali nella mortalità sono maggiori tra gli uomini e nelle fasce centrali della vita (…), si scopre che in corrispondenza della prima ondata della pandemia il divario di mortalità tra meno e più istruiti, che si osservava già nel 2019, si è ulteriormente allargato (…)”.

Anche se non si volesse ricorrere a Marx, sembra proprio che l’appartenenza di classe non risparmi nemmeno la morte ed il morire. Su questo merita di essere letto un libro di due economisti americani, Anne Case e Angus Deaton (che marxisti non lo sono di certo), appena pubblicato dal Mulino, dal titolo inquietante: Morti per disperazione e il futuro del capitalismo. “Il capitalismo, negli Stati Uniti, non funziona per 2/3 di coloro che hanno un’età tra i 25 e i 64 anni”: questa frase, pronunciata dalla Case, la dice lunga sulle tesi del lavoro. Deaths of despair, ovvero le morti collegate alla disperazione e che più specificamente sono identificate dai due studiosi con quelle che avvengono per suicidio, per eccesso di droga e per malattie del fegato dovute ad alcol, cioè per decisioni o comportamenti chiaramente autodistruttivi.

Succede che dal 1999 la mortalità degli americani bianchi non ispanici tra i 45 ed i 54 anni è notevolmente aumentata, tanto da trascinare un piccolo calo della speranza di vita di tutta la popolazione americana. Quasi tutte queste “morti di disperazione” sono di persone che non hanno conseguito ciò che chiamiamo laurea breve. I non laureati si sposano meno, molti non conoscono neppure i propri figli naturali.

Gli afroamericani stanno peggio in assoluto, ma la loro condizione tende a migliorare, mentre quella dei bianchi non ispanici, senza laurea conosce una deprimente mobilità sociale discendente. Hanno meno lavoro in assoluto e quando lavorano hanno impieghi peggiori con salari sempre più bassi e con scarsa protezione da parte dei sindacati, a loro volta sempre più irrilevanti. Di qui la difficoltà a crearsi legami affettivi ed amicali solidi, mentre i servizi peggiorano, soprattutto quelli sanitari. “Noi crediamo che il sistema sanitario è una calamità senza pari per gli americani e sta indebolendo la loro vita”, dicono gli autori. Una situazione in cui lo sceriffo di Nottingham (il turbocapitalismo) vince su Robin Hood mentre si diffonde l’anomia durkheimiana inducendo al consumo di oppioidi, di alcolici ed ai suicidi (per metà imputabili al facile accesso alle armi da fuoco).

Qualcosa di simile è avvenuto tra il 1989 ed il 2014 nel passaggio dal socialismo reale al capitalismo che ha causato circa 18 milioni di morti aggiuntive nei paesi dell’Est – di cui 12 milioni in Russia – in prevalenza uomini tra i 15 e i 59 anni. Un enorme aumento di mortalità legato soprattutto a disoccupazione, precarietà, disuguaglianze. Una vicenda analizzata ora nel volume curato da Vladimir Popov When Life Expectancy Is Falling: Mortality Crises in Post-Communist Countries in a Global Context ed in particolare nel capitolo di Giovanni Andrea Cornia The Mortality Crisis of the Former Soviet Bloc Countries, 1989-2014.

Scrive Cornia: “Gli anni dopo il 1989 sono stati caratterizzati da una severa recessione, una caduta della produzione e dei redditi, il rapido impoverimento di ampie fasce della popolazione, un aumento della concentrazione del reddito e della ricchezza, una grande disgregazione sociale e una acuta crisi di mortalità”. Di conseguenza in tutti i paesi ex-socialisti (con l’eccezione della Slovenia) la speranza di vita maschile è caduta e il tasso lordo di mortalità è aumentato. In Russia, in particolare, la speranza di vita maschile è scesa a soli 57,6 anni, 6,6 meno che nel 1989 e tre in meno rispetto all’India. La crisi di mortalità ha colpito soprattutto “uomini e (meno) donne giovani e di mezza età, con scarsa scolarità (…) e poche prospettive sul mercato del lavoro”.

La causa va cercata nell’aumento della disoccupazione e della precarietà, a loro volta prodotte soprattutto dalle privatizzazioni “selvagge” e dall’aumento vistoso delle disuguaglianze (i nouveaux riches). A questo proposito Cornia sottolinea che l’indice di Gini è aumentato molto – addirittura di 10-20 punti – proprio nei paesi (ex URSS e Europa sud-orientale) che hanno sperimentato la crisi di mortalità nella forma più estrema.

“Egualmente la Terra si dischiude al povero ed ai figli dei re”, scriveva Orazio, non aggiungendo però che al povero ed ai figli dei re la terra si apre in tempi e modi assai diversi. Esistono cioè determinanti sociali della salute e del morire che non possono essere affrontate solo dalla qualità dei sistemi sanitari, perché dipendono da disuguaglianze strutturali che la pandemia, come ben sottolinea l’Istat, ha crudamente rivelato ed esasperato.