Secondo il sociologo Jean-Didier Urbain, tutti i turisti si possono ricondurre a due principali tipologie, i «Phileas Fogg» e i «Robinson Crusoe». Se i primi si comportano come smaniosi giramondo sempre in cerca di nuovi panorami, gli altri sono animati dal desiderio di trovare un angolo di spiaggia per «evadere da tutto» nel ristretto lasso di tempo della loro vacanza. È a questa seconda e più sedentaria categoria che appartiene Udo Berger, protagonista poco più che ventenne del romanzo di Roberto Bolaño Il Terzo Reich.

Campione nazionale tedesco di un immaginario wargame da tavolo, chiamato per l’appunto «Terzo Reich», Udo si appresta a trascorrere due settimane di ferie assieme alla fidanzata Inge presso l’Hôtel del Mar, la piccola pensione sulla Costa Brava che già dieci anni prima, nel cuore degli anni Settanta, era stata meta abituale della famiglia. Lo scenario legato ai ricordi d’adolescenza spinge Udo a tenere un diario della vacanza: le sue meticolose annotazioni consentono al ragazzo, aspirante scrittore, di esercitarsi a mettere «in ordine» e «a fuoco» gli eventi quotidiani, mentre a noi lettori offrono un osservatorio privilegiato sulle dinamiche e sulle possibili trappole di una tradizionale villeggiatura in pensione.
Bastano poche pagine per accorgersi che la limitata offerta di spazi dell’Hôtel del Mar imprigiona i villeggianti in una sorta di cerchio magico dalla doppia, inesorabile polarità. Da una parte, si apre il territorio privato della «camera» con balconcino vista mare, destinata all’intimità e al riposo; dall’altra, si estendono le zone comuni, dai corridoi al bar, dalla sala da pranzo alla terrazza dell’albergo: posti «tranquilli», secondo Udo, se non fosse per il viavai di inservienti alienati nel lavoro e per la costante pressione di una nutrita, anonima clientela. Anche il lungomare e la spiaggia su cui si affaccia la pensione vengono percepiti come una tentacolare dependance dell’Hôtel, necessaria per drenare e contenere i corpi ingombranti della massa di turisti nel perimetro di un circoscritto orizzonte da «cartolina».

In una palla di vetro
Per divincolarsi dalla ressa, rimangono soltanto il malfamato bar della spiaggia, le altrettanto malfamate discoteche notturne, oppure l’interno di un paese senza attrazioni, intasato di automobili e chiuso nella sua «palla di vetro». Simili alternative continuano ad apparirci come un ventaglio di scelte prevedibili e pressoché obbligate, istituite apposta per elevare attorno ai villeggianti un «muro» che, a detta di Udo, li distingue e li separa da tutti gli altri individui. Non è un caso se a valicare questa frontiera invisibile intervengono solo alcuni «personaggi-tipo», come la proprietaria della pensione (Frau Else), una coppia di tedeschi conosciuti in spiaggia (Hannah e Charly) e infine una selezionata fauna locale di sfaccendati dai nomi poco raccomandabili: il Lupo, l’Agnello e soprattutto il Bruciato, bagnino «cavernicolo» dalla pelle orrendamente martoriata.

Non ci stupisce che Udo, dopo qualche giorno di permanenza, preferisca rinchiudersi «in camera» con il suo wargame. Se le giornate di mare sembrano condannarlo a ripetere gli stessi «gesti vani» – come «nuotare, parlare, leggere riviste, spalmarsi il corpo di creme» – i diversivi si riducono ai pasti consumati spalla a spalla con i turisti, alle immancabili bevute al bar o alle uscite notturne in locali grotteschi. «Non si può fare altro»: e se poi non bastasse, durante il pomeriggio la canicola estiva fa precipitare l’Hôtel del Mar in una morsa di noia e di sopore.

Anche il romanzo di Bolaño rischierebbe di seguire la stessa sorte se l’occhio di Udo non si impegnasse a registrare sotto la maschera della routine il complotto di un regime a libertà vigilata. I corridoi della pensione, in questa prospettiva, si tramutano ben presto in un labirinto dal ronzio sospetto, dove gli addetti del personale si manifestano come demoni in agguato, mentre tutti gli altri abitanti del regno delimitato dall’orizzonte della spiaggia lasciano trapelare la loro natura di creature predatorie, determinate a vampirizzare l’anima dei turisti. Persino i gabbiani sulla battigia risultano appostati di vedetta, ad attendere sotto un sole satanico una catastrofe annunciata da un senso di «paura» e di «pericolo» sempre più imminenti.

«Niente di strano – ci ripete Udo – eppure mi è sembrato inquietante». Ma l’inquietudine, ci si chiede a metà del romanzo, non sarà da attribuire a un’insolazione allucinatoria? Oppure il talento del diarista visionario è in grado di farci percepire – proprio come accade in altri romanzi di Bolaño – la minaccia del male nascosto sotto le apparenze di ogni più tranquilla superficie? E in entrambi i casi, chi si è inventato la particolare modalità di villeggiatura patita dal giovane giocatore del Terzo Reich?

Le vacanze di Udo, in realtà, calcano le orme di una specifica forma di turismo di massa che a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso – secondo la Storia delle vacanze di Orvar Löfgren – investì le coste della Spagna mediterranea. Per qualche decennio, il cosiddetto «turismo delle quattro esse» (sea, sun, sand and sex: mare, sole, sabbia e sesso) catalizzò le ferie della piccola e media borghesia del Nord Europa con la promessa di una spensierata parentesi balneare, terapeutica e rigenerante. Anche se poi l’obiettivo della rigenerazione, secondo Löfgren, poteva essere raggiunto solo a patto di consegnarsi anima e corpo a un sistema di svaghi e strutture – come la «modesta pensione sulla costa» – progettati per irreggimentare la «difficile arte del non far niente» in una vita «gerarchicamente controllata» e scandita, nelle diverse fasi del giorno, da una serie di «rigidi rituali».

«Il vacanziere è un uomo che scappa» – ha osservato Giorgio Manganelli nel 1979 – ma per farlo «deve rivolgersi a un’organizzazione che si occupa di fughe». In questo senso, Bolaño non fa che ingigantire e portare alle estreme conseguenze alcuni cliché legati alla «pensione-prigione» affidandoli alla penna di un diarista psicotico, capace di trascinare la seconda parte del romanzo verso la paventata catastrofe.

Strategie del gioco
Dopo la misteriosa sparizione di Charly in mare, e nonostante il rientro di Inge in Germania, Udo allarga a data da destinarsi il cerchio magico delle ferie, non certo per godere delle «bellezze del luogo», né per attendere che il mare si decida a restituire il cadavere dell’amico, ma soltanto per ritirarsi a studiare strategie di gioco. A nulla valgono le premure di Frau Else, che lo invita a dedicarsi ai ben più salutari svaghi previsti dal suo Hôtel: in preda agli avvertimenti di una «voce interiore», Udo si professa succube di un maleficio invincibile. E mentre la pensione sembra cadere a pezzi col finire della stagione, tutti gli sforzi del vacanziere si appuntano ad attirare nella propria stanza fatiscente il Bruciato, per disputare contro questo «nemico» cavernicolo, ormai del tutto simile al «Demonio», un’ultima fallimentare partita al Terzo Reich. Solo quando sarà stato polverizzato dalla più clamorosa delle sconfitte, Udo accetterà di abbandonare una volta per tutte l’Hôtel del Mar.

Si fa allora più certa l’ipotesi che nel diario del Terzo Reich risuonino i deliri persecutori di un ludopata, trascinato dalla fidanzata nel gorgo di una vacanza che avrebbe dovuto aiutarlo ad evadere dalle sue manie compulsive. Non si può tuttavia negare che le malate allucinazioni di Udo si innestino su un fondo di verità, né che il piano della sua compagna abbia funzionato come una rigenerante discesa agli inferi. Perché prima di concludere la parabola del diario, una volta rientrato in patria, Udo ci informa che ha deciso di «astenersi» dalle pratiche legate al suo wargame.
Tra i tanti demoni che si sono scatenati nel labirinto dell’Hôtel del Mar, almeno uno – il Demone del gioco – è stato dunque annientato. Come a dimostrarci che una villeggiatura in pensione, anche la più infernale, può sempre conservare il suo auspicato valore terapeutico.