«C’è una forte esigenza di protezione internazionale da parte di chi fugge da regimi malvagi o da situazioni di guerra. E oggi l’Italia sopporta il peso maggiore dei salvataggi». Fabio Cassio è ammiraglio in congedo della Marina militare, esperto di diritto internazionale marittimo.

Ammiraglio, sembra ci sia stata una collusione tra il peschereccio dei migranti e il mercantile portoghese intervenuto in soccorso. C’è un problema di inadeguatezza di queste navi per gli interventi di salvataggio?

Questo è un punto dolente. In Italia il soccorso è una competenza del ministero dei Trasporti tramite il corpo delle Capitanerie-Guardia costiera, ma la possibilità di usare i mercantili è prevista dal codice della navigazione. Secondo la normativa internazionale, però i mercantili sono sì autorizzati a intervenire, ma solo nel caso siano idonei alle operazioni di salvataggio. Ora noi abbiamo a che fare con navi che per le loro caratteristiche non sono idonee a svolgere questi compiti, sia perché non sono manovrabili, sia perché hanno il bordo libero alto, ma anche perché gli equipaggi non possono fronteggiare questo tipo di interventi. Questo vuol dire che i mercantili non possono essere considerati come un fattore sistemico. Dovrebbero essere un fattore eccezionale, purtroppo però sono diventati la norma.

Per contrastare i trafficanti di uomini il governo italiano e l’Unione europea pensano di applicare in Libia quanto è stato fatto in Somalia con l’operazione Atalanta. In cosa consiste?
E’ un’operazione anti-pirateria. Ricorderà che le imbarcazioni dei pirati hanno rappresentato un pericolo per cinque anni, dal 2008 fino al 2013. Si pose quindi il problema di contrastarla in maniera efficace. Sono state mobilitate forze navali di diversi Paesi. A un certo punto però ci si è accorti che il fenomeno non decresceva, o perlomeno aveva una decrescita non correlata alle azioni in mare, fatto che portò alla convinzione che bisognava agire anche a terra, direttamente in Somalia neutralizzando le barche, cosa resa possibile da una risoluzione delle Nazioni unite.

E’ corretto leggerlo come un atto di guerra?

L’intervento in Somalia no, perché c’era un accordo con il governo somalo. Fu un’attività di polizia internazionale. Lei sa che le Nazioni unite autorizzano l’uso della forza per ristabilire la pace e l’ordine internazionale. All’epoca la pirateria rappresentava una minaccia alla pace, quindi vennero autorizzati tutti i mezzi necessari a sconfiggerla.

Quel modello si può applicare alla Libia?

In Libia ci troviamo di fronte a uno scenario diverso. Non c’è una minaccia diretta alla pace e alla sicurezza, bensì una minaccia alla vita delle persone, dei migranti, e c’è la necessità di interdire il traffico di esseri umani. Per intervenire serve una risoluzione delle Nazioni unite, se si ipotizzassero interventi militari dovrebbero essere estremamente proporzionati. Il presidente del consiglio Renzi ha detto che non ci saranno azioni sul terreno quindi escluderei interventi sulle spiagge libiche. Credo che la cosa più ipotizzabile sia che, una volta eseguiti i salvataggi in mare e liberate le imbarcazioni dalle persone trasportate, si procederà al loro affondamento, come fanno tanti Paesi. Noi invece le sequestriamo e le portiamo in Italia. Sinceramente non riesco a immaginare un intervento nei porti libici, anche perché parliamo di situazioni in cui ci sono persone vicino alle barche. Bloccarle, significherebbe fermare anche il flusso di denaro sporco. Resta fermo, comunque, che le Nazioni unite potrebbero autorizzare un’azione militare di polizia internazionale mirata a fermare i traffici illeciti. Ricordo infine che dopo la strage di Lampedusa del 2013, l’Italia aveva proposto all’Ue una missione di sorveglianza navale dedicata proprio a impedire i traffici illeciti, compresi quelli di esseri umani, al largo della Libia.