Interessi regionali e globali si sovrappongono e fanno risuonare i tamburi di guerra. Ma lo scontro, nel campo di battaglia siriano, è davvero inevitabile? Ne abbiamo parlato con Mouin Rabbani, ricercatore palestinese e collaboratore dei think tank Jaddaliyya e Al-Shabaka. Ha lavorato nel dipartimento Affari Politici dell’Ufficio dell’inviato Onu per la Siria.

Dopo l’accordo di Monaco sulla cessazione delle ostilità, deciso senza alcun siriano al tavolo, il conflitto si è intensificato. Qual è la ragione di tale escalation?

Non penso sia una reazione all’accordo. I raid russi hanno permesso all’esercito siriano e alle milizie alleate di realizzare risultati significativi nelle ultime due settimane. È possibile che l’escalation a cui abbiamo assistito a fine gennaio, a stretto giro dal via al negoziato di Ginevra, sia stata una deliberata provocazione delle opposizioni, per forzarle a lasciare il tavolo. Ma la successiva intensificazione, dopo Monaco, non è collegata all’accordo: la Russia ha detto da subito che avrebbe proseguito nei bombardamenti contro le organizzazioni terroristiche escluse dal cessate il fuoco. Non hanno avuto bisogno di un pretesto.

I due fronti in campo usano i mezzi militari per imporre la propria volontà ad un eventuale tavolo del negoziato. Si tratta di mere minacce o è immaginabile una concretizzazione dello scontro?

È una domanda difficile: non esistono coalizioni definite che operano sul terreno. Sul lato governativo Russia, Siria, Iran e Hezbollah hanno sì posizioni comuni ma anche differenze di vedute: Damasco si oppone a qualsiasi processo politico perché sa che l’avvio di una transizione segnerà la fine del regime; Mosca al contrario vorrebbe che elementi delle opposizioni moderate partecipino al governo di unità.

Se si guarda all’altro fronte, gli Usa hanno accettato a grandi linee l’agenda russa, ma altri attori sono determinati ad eliminare Assad a ogni costo. Questo si riflette sul tavolo del negoziato: negli ultimi mesi Mosca e Damasco hanno sfruttato l’avanzata sul terreno per influenzare il dialogo. Se il rischio di uno scontro reale non è probabile, è comunque possibile per una serie di ragioni. In primo luogo il ruolo di Turchia e Arabia Saudita.

Veniamo proprio alla Turchia: Ankara colpisce le Ypg, alleate Usa contro l’Isis, e minaccia interventi di terra. Erdogan è una scheggia impazzita o è mosso dagli interessi Nato?

I kurdi giocano un ruolo sempre più importante nel nord della Siria e la Turchia, in aggiunta alla politica di opposizione ad Assad, vede questa espansione come una minaccia diretta. Sono così tanti gli interessi locali, regionali e internazionali in ballo da creare conflitti interni. Anche alla Nato: due suoi membri, Turchia e Usa, che pubblicamente dicono di perseguire lo stesso fine, localmente sostengono proxy in conflitto tra loro, Jaysh al-Fatah i primi e le Ypg nel secondo. Dall’altra parte su fronti opposti, Usa e Russia, che sembrano avere agende incompatibili in Siria, sostengono entrambi le forze kurde.

Anche i sauditi minacciano interventi ma la loro è una posizione di debolezza, economica e diplomatica.

I sauditi soffrono un senso di abbandono, soprattutto da parte degli Stati Uniti a seguito dell’accordo sul nucleare iraniano. Devono dimostrare la propria credibilità e spingono per un intervento che li salvi dall’oblio. Mettendo insieme questi elementi, il conflitto russo-turco e la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, non si può escludere che – per caso o deliberatamente – si giunga allo scontro diretto. È tuttavia vero che negli ultimi 5 anni, ogni volta che una parte ha provocato, l’altra non ha reagito.

Intanto le opposizioni si sono riunite in una federazione estremamente diversificata, dai salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam ai laici dell’Els. Come possono rappresentare un’alternativa credibile?

Negli ultimi mesi i gruppi di opposizione sono finiti sotto un’enorme pressione militare che ha portato ad alleanze di convenienza e spinto certi attori ad approfittare della situazione per eliminare dei rivali. I sauditi hanno lavorato per assicurare che la “propria” opposizione diventasse la leader della delegazione al tavolo di Ginevra. Lo stesso hanno fatto Qatar e Turchia, riuscendo nell’intento: Ankara ha imposto l’esclusione dei kurdi e Riyadh ha ottenuto che l’opposizione storica, in esilio a Istanbul, rappresentasse solo una minima parte del più ampio fronte anti-Assad, accrescendo così la propria influenza sul negoziato.

Rispunta anche l’appoggio israeliano alle opposizioni siriane. Come si pone Israele nella crisi?

Israele vuole che questo conflitto duri il più a lungo possibile, senza vincitori, così che la Siria come società, come Stato, come entità militare, ne esca disgregata e quindi incapace di opporsi al disegno strategico israeliano nella regione. Ma Tel Aviv è anche consapevole dei pericoli: se Assad vincerà, si troverà comunque in una posizione di debolezza e sarà maggiormente soggetto all’influenza iraniana. Iran e Hezbollah avranno maggiore spazio di manovra al confine tra Siria e Israele, come mai prima.