Nel mirino perché scomodi. Perché con il loro lavoro accendono i riflettori sui diritti umani violati, sulla corruzione dei regimi, sugli eccidi di civili. Testimoni di realtà spesso atroci che i potenti di turno preferirebbero mantenere nell’ombra. E per questo imprigionati, sequestrati, torturati e, purtroppo, uccisi. Sono i giornalisti, inviati dai giornali nelle zone più calde del mondo e che rischiano la vita per svolgere il loro mestiere. Come in Siria, dove negli ultimi due anni sono stati più di 36 i giornalisti, siriani e stranieri, uccisi negli scontri tra truppe leali a Bashar al Assad e oppositori del regime. A denunciare le violenze subìte dai giornalisti è Amnesty International in un dossier sull’informazione intitolato «Colpire il messaggero» presentato ieri in occasione della Giornata della stampa libera. E questo mentre non si hanno ancora notizie di Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa scomparso da tre settimane proprio in Siria. «Un clima di impunità persiste, nove su dieci casi di giornalisti uccisi restano impuniti», ha detto ieri il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon ricordando come «troppi rappresentanti dei media soffrono ancora di intimidazioni, minacce e violenza».
Sono più di 600 i reporter che hanno perso la vita negl ultimi dieci anni e, secondo gli ultimi dati forniti da Reporters sans frontiéres, 19 solo quest’anno, a quali se ne devono aggiungere altri 174 arrestati.
Proprio la Siria è il paese al centro del dossier messo a punto da Amnesty. «Con questo rapporto abbiamo documentato ancora una volta come tutte le parti in conflitto stiano violando le leggi sulla guerra, sebbene il livello di abusi commessi dalle forze governative resti molto più grande», ha detto Ann Harrison, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord. «Gli attacchi deliberati contro i civili, compresi i giornalisti, sono crimini di guerra i cui responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia».
Amnesty ha ricordato come da anni in Siria non esista una vera libertà di informazione, con giornali, radio e televisioni indipendenti messe nell’impossibilità di svolgere il proprio mestiere. Nell’aprile del 2011, nel tentativo di abbassare la tensione crescente nel Paese, il regime ha abolito lo stato di emergenza in vigore dal 1963, senza che per questo le cose per i giornalisti cambiassero. Eppure il loro lavoro è fondamentale per verificare l’autenticità delle notizie ufficiali e per la diffusione di informazione attendibili. Sempre nel 2011 il regime ha aumentato la pressione sulla stampa al solo scopo di impedire che venissero seguite e trasmesse informazini su manifestazioni prevalentemente pacifiche, una scelta che ha avuto l’effetto di dar vita al fenomeno dei citizen journalism con la conseguente diffusione di notizie sui social network. Blogger che spesso mettono a rischio la propria vita pur di raccontare quanto sta accadendo nel proprio Paese.
Tra i tanti casi, Amnesty ricorda quello del giornalista palestinese Salameh Kaileh, arrestato nell’aprile del 2012 dai servizi segreti dell’Aeronautica per aver criticato al nuova Costituzione. Arrestato, torturato e poi espulso in Giordania. E’ andata peggio, invece, al presentatore televisivo Mohammed al-Sa’eed, rapito dalla sua abitazione Damasco nel luglio del 2012 e ucciso dal gruppo di opposizione islamista Jabbat al-Nusra. «Chiediamo da due anni alla comunità internazionale – ha concluso Amnesty – di adottare misure concrete per garantire che i responsabili di tutte le parti in conflitto siano chiamati a rispondere di fronte alla giustizia per i crimini commessi e che le vittime ricevano una riparazione. Il popolo siriano sta ancora aspettando».