Il 24 maggio del 1999, dopo il fallimento degli accordi di Rambouillet redatti in modo che la parte jugoslava non li potesse sottoscrivere – come commentò allora Luciana Castellina su il manifesto -, si scatenò l’operazione della Nato Allied Force contro quello che era rimasto della Repubblica federale di Jugoslavia. Fu una aggressione devastante che venne definita «umanitaria» e voluta dall’allora Ulivo mondiale (Clinton, Blair, Schroeder, D’Alema).

Seguirono 78 giorni di bombardamenti incessanti. Vennero colpiti, oltre a obiettivi militari centinaia di obiettivi ed infrastrutture civili tra cui fabbriche, sedi tve, ambasciate, ponti, centrali elettriche ed impianti petrolchimici provocando lo stesso effetto di un bombardamento chimico come avvenne a Pancevo, a 15 km da Belgrado. Vennero impiegate bombe a grappolo vietate dalla convenzione di Ginevra e scaricate, come già fatto prein Bosnia ed Iraq, 15 tonnellate di uranio impoverito sotto forma di blindatura per i proiettili anticarro.

Per Human Rights Watch morirono sotto le bombe «umanitarie» oltre 500 civili mentre migliaia furono i feriti. I danni materiali ammontarono ad almeno cento miliardi di dollari. Ma l’inferno non si fermò con la resa del governo jugoslavo ed anzi ciò che seguì la fine dei bombardamenti fu ancora più micidiale: la Jugoslavia, poi Serbia, è balzata al primo posto per numero di malattie oncologiche in Europa: dopo i primi 10 anni da Allied Force, circa trentamila persone si ammalarono di cancro, e almeno diecimila ne morirono.

La Nato, mentre bombardava la Jugoslavia senza avallo Onu, cambiava rocambolescamente i suoi statuti per adeguarli alla bisogna, facendo a pezzi il diritto internazionale e dimostrando al resto del mondo che lo stesso diritto internazionale poteva essere impunemente considerato «cosa nostra». Sono passati 22 anni da allora ma i nodi, finalmente, cominciano ad arrivare al pettine.

Lo scorso lunedì un ex militare dell’esercito jugoslavo, rappresentato dall’avvocato Srdjan Aleksic’, ha depositato presso la Corte Suprema di Belgrado una causa contro la Nato per l’uso di munizionamento all’uranio impoverito durante l’aggressione del 1999 che gli avrebbe causato patologie tumorali molto gravi e molto simili a quelle dei suoi omologhi italiani rientrati dal quadrante balcanico.

Considerato che per il diritto internazionale la Nato ha lo status di persona giuridica lo stesso Tribunale invierà l’atto tradotto a Bruxelles presso la sede dell’Alleanza. Sarà il primo processo in cui la Nato apparirà come imputato. E sarà il primo di una lunga serie di cause risarcitorie per restituire, per quanto possibile, un pezzo di giustizia alle vittime dell’uranio impoverito ma anche a chi si è visto bombardare la casa, il negozio o a chi ha subito le drammatiche conseguenze del disastro ambientale seguito al raid deliberato dell’impianto petrolchimico di Pancevo.

Questa causa e tutte quelle che seguiranno saranno supportate dall’esperienza accumulata dall’avvocato italiano Angelo Fiore Tartaglia e dalle quasi duecento sentenze favorevoli messe a segno nei tribunali italiani contro il ministero della Difesa dove si è dimostrata la correlazione causale tra esposizione all’uranio impoverito e gravi patologie tumorali manifestatesi in molti soldati rientrati da Bosnia, Kosovo, Iraq. La dote giuridica che Tartaglia sta condividendo col suo collega serbo costituirà, perizie comprese, una solida base di appoggio per i processi.

Altro puntello è pure la relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito presieduta da Giampiero Scanu ed acquisita dall’omologa commissione istituita dal parlamento serbo nel 2018.

Per volontà della stessa Commissione d’inchiesta italiana la relazione finale era stata consegnata anche al presidente dell’Europarlamento David Sassoli che aveva promesso attenzione. Attenzione non ancora pervenuta ma prima o poi si dovrà destare perché Aleksic’ e Tartaglia puntano, dopo le azioni legali in Serbia, alla corte internazionale di giustizia dell’Aja.