Di tutte le profezie degli inesausti sognatori cechoviani, che incendiano il grigiore dello spirito in fantastiche prefigurazioni della società dell’avvenire, una delle poche che possa dirsi avverata è quella del rozzo, risoluto e terragno Lopachin, che consiglia ai latifondisti di vecchio stampo del Giardino dei ciliegi di affittare a cittadini bramosi di dace una parte della tenuta sommersa di ipoteche (che, alla loro sordità, finirà lui per comprarsi): «Tutte le città, anche le più piccole, sono ormai circondate di dace. C’è da aspettarsi che tra vent’anni saranno diventate una quantità inverosimile. Adesso i villeggianti se ne stanno solo a bere il tè sul terrazzino, ma può essere benissimo che il loro ettaro di terra cominceranno a coltivarselo».

È il 1904. Presto la rivoluzione spazzerà via i vacanzieri vestiti di bianco della belle époque russa, i balli intonati ai colori dei ciliegi o dei lillà, gli aristocratici flirt tra declamazioni simboliste, le verande a vetri esposte a sud, gli intarsi liberty alle finestre, le mazze da cricket. E in piena era sovietica, prima con Stalin, rinnovatore, assieme a tante altre tradizioni della Russia imperiale, anche di quella della dacia, poi con Chrušcëv, che inizierà a distribuire tra i più meritevoli esigui lotti edificabili, quanto predetto da Lopachin troverà piena realizzazione: attorno a una casetta di legno di due, anche una sola stanza, qualche volta con una mansardina sotto il tetto, gli eroi del lavoro sovietico avranno il privilegio di poter coltivare ormai leggendari seicento metri quadri di terreno, garantendosi insieme un surrogato, neppure così scialbo, di proprietà privata e un cospicuo sostegno di calorie e vitamine in una lunga stagione di scaffali semivuoti.

Miniature dei latifondi
È evidente da subito che la dacia rappresenta un prodigioso concentrato dei valori e delle istanze sulle quali si fonda la cultura russa. A partire dall’etimo, perché, già ai tempi di Pietro il grande, che voleva trattenere anche nella bella stagione i suoi magnati un po’ più vicino alla nuova capitale, per «dacia» si intende il potere che , elargisce terra a fini di svago, in cambio di nulla ma sempre in premio di qualcosa. Fin da qui il nodo è consistente: la generosità sopra tutto (e da sopra tutti), un’ascesa sociale passiva e fulminea, per sudditanza a non per intraprendenza. Da qualsiasi punto di vista si guardi la terra è l’ indiscutibile centro gravitazionale della visione russa del mondo.

La borghesia tardivamente emergente di fine Ottocento non fa altro che costruirsi, alle ultime stazioni delle nuove linee ferroviarie in ingresso alle grandi città, tante piccole versioni miniaturizzate dei giganteschi, remoti o remotissimi, latifondi dove per secoli la grande nobiltà aveva prosperato di lavoro servile, discettando, come insegnavano i classici della letteratura, di amore e massimi sistemi al fresco di un gazebo. E degli stessi latifondi, infinite versioni ancora più miniaturizzate si costruiranno gli eredi dei servi di allora, divenuti proletari sull’apparente tetto del mondo, forsennatamente inurbati nel corso del Novecento, cui veniva offerto un ritorno alla terra en abyme e a cinquanta-cento chilometri da casa, grato e straniante. Di nuovo la terra come esigenza dell’anima e atavicamente connaturata all’animo russo, sulla quale tanto ha speculato e specula il pensiero conservatore, non senza ragioni, ma con un’assolutezza che nel coacervo semiotico della dacia viene messa alla prova dalla non minore emergenza di altri due topoi culturali: il lavoro, fine a se stesso, all’antitesi di ogni sua concettualizzazione capitalista e quindi, paradossalmente, affine all’ideologema sovietico; la proprietà, che se pure, in fatto di terra era condivisa già in epoca slavo comune, torna a porsi come potenziale fondamento identitario.

Per tutti questi motivi la dacia è enormemente di più che una seconda casa in campagna, e può esistere e dirsi tale solo in Russia, tanto più che in ogni fase della sua sorprendentemente univoca diacronia ha sempre marcato un altro paradosso, anche questo ben evidenziato dalla lingua, che non ha traducenti diretti per l’idea di «vacanza»: in russo c’è solo il verbo otdychat’, che alla lettera vale «riposare», sospendere ogni frenesia, ricaricarsi alle poco capienti batterie solari, e ciò di nuovo in ossequio a uno spazio senza soluzione di continuità, che inibisce il viaggio, impone l’osservanza dei monumentali ritmi delle due stagioni, quella della stasi e quella dell’attività, pur nel paradosso del loro totale rovesciamento rispetto alla secolare tradizione del mondo contadino, per la quale solo l’estate era tempo di lavoro (o forse in memoria di quella).

Corroboranti ritualità
E così, fuori da ogni inganno statistico, da cinquanta anni abbondanti una metà di tutti i russi trascorre in dacia un periodo più o meno lungo, a seconda dell’età e delle distanze, che può andare da maggio a ottobre o concentrarsi in un mesetto e tanti fine settimana. Con l’eccezione degli adolescenti, che simpatizzerebbero con piacere per più dinamici e adrenalici diletti, ma alla dacia già tornano con la prima prole, di solito assai precoce. Tutte le generazioni, comunque, si trovano sintonia con una delle tante corroboranti ritualità del mondo della dacia: l’amaca, il tè un’ora sì e l’altra pure, marmellate autoprodotte e deliziosi tortini appena sfornati ripieni d’ogni ben di Dio, la chiacchiera più o meno filosofeggiante con i vicini o gli amici ospiti, il sole filtrato dai vetri sul pavimento di legno nei tanti giorni meno caldi, la lettura, da sempre sport nazionale, tutto in contrasto con le ore passate chini (e soprattutto chine) sui lunghi filari dell’orto, sopra le rudimentali serre, a zappare, seminare, potare, mondare e finalmente raccogliere pomodori, cetrioli, cavoli, carote, rape, barbabietole, tirar giù dagli alberi carriole di mele o albicocche da nessun appetito smaltibili, o scavare, come vuole altra intramontabile battuta, esattamente tante patate quante se n’erano seminate l’anno prima.

Con sfoggio d’infinita inventiva nella conversione all’orticoltura delle bottiglie di plastica, dei vasetti di yogurt, e quasi altrettante ore dedicate le sere alle procedure per la conservazione del surplus dei raccolti, in primis i leggendari cetrioli in salamoia. Ovunque l’acqua, dai grandi fiumi ai ruscelli agli infiniti laghetti o stagni, a volte quasi piscine private. Per la balneazione e per la pesca, da trasferire subito ai barbecue, in rigorosa alternanza a quelli di carne alla georgiana, gli šašlik.

Lo «Spargivento» di Sokolov
Sovraimposta a tutto una grande sensazione di libertà interiore, di comunione con la natura, di proficuo isolamento, che per lunghe stagioni (la presente inclusa) si è trasformato in emigrazione interna. Permeato fantasmagoricamente dello spazio delle dace è uno dei libri capitali del secondo Novecento, La scuola degli sciocchi di Saša Sokolov, che a questa libertà intona un autentico inno nella figura del postino delle dace, sorta di dio anticoslavo del vento: «Il postino appariva, come al solito, tranquillo, e solo la sua barba, sulla quale s’impigliavano gli aghi d’abete, svolazzava al vento: il vento generato dalla velocità, il fulmineo vento ciclistico, e al mio vicino – fosse stato almeno un po’ poeta – sarebbe fuor di dubbio sembrato che il volto di Micheev, perfuso da ogni spiffero di dacia, emanasse come di suo il vento, e che Micheev stesso fosse quello che i villeggianti erano soliti chiamare Spargivento».