«Lungo la strada che da Gatcina conduce a Narva non solo si può trovare una dacia a buon prezzo, ma anche gustare quella sana atmosfera campagnola, quella semplice routine estiva di cui tanto necessitano gli abitanti della capitale», così nel 1892 la Guida ai dintorni di Pietroburgo in base alla loro salubrità magnificava la chance di rigenerarsi per qualche mese a contatto con il mondo naturale, in una delle tante località di villeggiatura che stavano spuntando come funghi intorno alla città. Da qualche decennio in Russia si stavano infatti diffondendo le cosiddette dacie, ovvero quelle case esclusivamente destinate al riposo che fino alla metà dell’Ottocento erano rimaste appannaggio di una ristretta cerchia di eletti. Dopo l’ondata rivoluzionaria dell’«andata al popolo» e la liberazione dei servi della gleba, la campagna aveva cessato di essere il laboratorio sociale dei progetti dell’intelligencija e si era trasformata in buen retiro per gli affittuari provenienti dalle grandi città.

Con una frenesia inusitata si abbattevano boschi per erigere nuovi villaggi riservati ai vacanzieri, oppure si ampliavano le vecchie izbe contadine, ingentilendole con verande e mezzanini secondo il gusto di una classe media sempre più estesa. Grazie alla realizzazione di linee ferroviarie, la provincia diventava facilmente raggiungibile dai centri urbani, alimentando il pendolarismo prettamente maschile dei «mariti in dacia», quei consorti funzionari o liberi professionisti che, al termine della giornata lavorativa, facevano ritorno dalle famiglie carichi di vettovaglie altrimenti introvabili nei luoghi sperduti dove avevano lasciato i propri cari.

Trascorrere l’estate in campagna poteva essere anche un buon affare: se l’affitto di un appartamento in città era mensile, quello di una dacia durava invece per l’intera stagione, così molti si ingegnavano di prolungare il più possibile la villeggiatura per poi mettersi alla ricerca di una nuova casa in autunno. Le partenze per le vacanze somigliavano dunque a veri e propri traslochi, benché abitare da aprile a ottobre in villini di legno dal tetto talora fatiscente presentasse evidenti svantaggi. Tuttavia, questo non impediva a giornalisti e scrittori di descrivere in termini estatici località che, magari, alla prova dei fatti si rivelavano umide e infestate dalle zanzare. «Invece di ‘Vedi Napoli e poi muori’, si potrebbe dire: ‘Vedi Jukki e poi vivi!’» sosteneva con un certo sprezzo del ridicolo un’altra guida pietroburghese a proposito di un remoto villaggio di dacie ai confini con la Finlandia.

Addio ai ciliegi
Lungi dall’essere un semplice fenomeno di costume, i dacniki, ovvero gli abitanti delle dacie, cominciarono ben presto a popolare le pagine della letteratura. «Finora in campagna c’erano solo i signori e i contadini, ma adesso sono comparsi i villeggianti. Tutte le città oggi, anche le più piccole, hanno una periferia di villini. E nei prossimi vent’anni, vedrete, il villeggiante si moltiplicherà all’infinito»: questa la profezia che Anton Cechov nel 1904 aveva consegnato a Ermolaj Alekseevic Lopachin, mercante figlio di un servo della gleba, nonché «giustiziere» del giardino dei ciliegi nella pièce omonima. Prima di acquistarlo all’asta per abbatterlo, Lopachin aveva suggerito alla proprietaria Ljubov’ Andreevna Ranevskaja di trasformare quell’appezzamento tanto pittoresco quanto poco redditizio in un villaggio di dacie da affittare. Una proposta che all’aristocratica appena rientrata dall’estero aveva strappato una esclamazione piuttosto scandalizzata: «Villini e villeggianti – scusate. È così volgare».

A giudicare dalle cronache dell’epoca, molto meno schizzinosi si dimostrarono ricchissimi possidenti quali il principe Michail Golicyn o il conte Sergej Šeremetev, che sin dagli anni Settanta dell’Ottocento avevano iniziato a lottizzare gli acri improduttivi delle loro favolose tenute. Più improvvida di loro, Ranevskaja vedrà invece cadere i suoi amati ciliegi sotto la scure degli uomini di Lopachin senza ricavarne neppure un centesimo. E la sua traiettoria personale, delineata da Cechov con struggente empatia, diventerà metafora della crisi di una classe sociale – la nobiltà terriera – irrimediabilmente avviata sul viale del tramonto.

Che la previsione messa in bocca a Lopachin fosse ormai divenuta realtà lo testimonia un’altra pièce inscenata quello stesso anno, sia pur con molto minor successo. In Dacniki, Maksim Gor’kij affronta di petto quei risvolti che Cechov nel Giardino aveva lasciato in ombra e cioè le conseguenze che l’irruzione nelle campagne di un nuovo tipo umano, il villeggiante, aveva portato con sé. Un tema che, evidentemente, doveva aver colpito da tempo la sua immaginazione, dal momento che ne fa alcuni primi accenni già in un racconto del 1898, «Varen’ka Olesova». Qui Gor’kij mette alla berlina la gioventù disimpegnata degli «ignominosi, svigoriti anni Novanta», quegli intellettuali di prima generazione, figli di cuoche o contadini inurbati, per cui la campagna non rappresentava più il terreno dove attuare progetti di rinnovamento sociale, bensì «un luogo in cui trascorrere piacevolmente l’estate»: «Per loro la campagna è la dacia delle vacanze, anzi loro stessi sono vacanzieri nell’intimo. Vengono al mondo, vivono la loro vita e scompaiono nel nulla, lasciando dietro di sé una scia di cartacce, rottami, brandelli».

Un posticino per sproloquiare
Analogamente, in Dacniki la villeggiatura protratta per mesi e mesi a dispetto non solo delle condizioni atmosferiche, ma anche della situazione sociale, diventa emblema di un atteggiamento fatuo e irresponsabile nei confronti della vita. Esattamente ciò che Gor’kij rimprovera ai suoi personaggi, quella eterogenea accolita che comprende uno scrittore che non scrive, una pretenziosa poetessa, una moglie romantica e insoddisfatta e il fratello di lei, nonché un congruo numero di mariti insensibili o distratti. Ad accomunarli è una inspiegabile paralisi esistenziale, non si sa se dovuta a noia o a sazietà. L’unica eccezione – forse – è costituita da Rjumin che, respinto dalla principale figura femminile, Varvara Michajlovna, tenta di pugnalarsi, ma si procura solo una lieve ferita, rendendosi ridicolo agli occhi degli altri.

Picnic in riva al fiume, gite in barca, recite improvvisate non riescono a colmare il vuoto in cui annaspano i villeggianti di Gor’kij, al contrario lo rendono ancora più evidente. E per l’autore ciò è tanto più inaccettabile proprio perché, come afferma la sua porte-parole Mar’ja L’vovna, «nel nostro paese non c’erano mai stati prima individui istruiti legati alle masse popolari da un rapporto di consanguineità». Eppure i personaggi di Dacniki non sono minimamente attratti dalla prospettiva di mettere il proprio sapere al servizio del bene comune. Per cui Varvara Michajlovna, la più tragicamente lucida tra le eroine gorkiane, avrà più di una ragione nel negare a se stessa e ai suoi amici la nomea di intellettuali: «L’intelligencija non siamo noi! Noi siamo qualcos’altro… Noi siamo villeggianti nel nostro paese, gente venuta da fuori…Ci affanniamo, sempre alla ricerca di un posticino comodo…e non combiniamo niente, ma in compenso parliamo tanto da far schifo…»

Pièce schematica e tendenziosa, insopportabilmente simile a un pamphlet – questo il giudizio espresso su Dacniki dai registi del Teatro d’Arte di Mosca che avevano appena messo in scena Il giardino dei ciliegi. Assuefatti all’impareggiabile sfumato cechoviano, Vladimir Nemirovic-Dancenko e Konstantin Stanislavskij trovarono inaccettabili le tinte nette di Gor’kij. Accusato di «non voler bene» ai suoi personaggi, quest’ultimo fu dunque «dirottato» verso il Teatro Drammatico, che ospitò con enorme scandalo la première di Dacniki l’11 novembre 1904. Cechov era ormai morto da qualche mese e di lì a poco l’anno 1905 avrebbe spostato l’attenzione generale dal carattere del «villeggiante» al suo diretto antagonista: il rivoluzionario.