Un’utopia sull’argine del fiume Senio: a Cotignola, nelle campagne romagnole tra Lugo e Faenza, «Fuori Dalle Balle» è una festa delle arti che ha luogo dal 2009 nell’Arena delle balle di paglia, un teatro temporaneo in mezzo ai frutteti, con sedute fatte proprio di paglia ed installazioni vegetali: un luogo dove fare pausa dalle ruggini e dalle ansie delle nevrosi urbane.

ARTISTI, costruttori di capanne, inventori di pensieri, cantanti, musicisti, attori, venditori di fumo, artigiani, raccontatori, contadini, musei segreti, speranze, stagni, raccoglitori di grano: questi i protagonisti dell’avventura che cerca di dare nuovo senso e di nuovo senso all’idea di rito. L’apertura di questo sogno di mezza estate è affidata a l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, da Ginevra: un nome, un programma, ispirato agli ensemble dell’Africa Occidentale come i congolesi Konono n.1 e Orchestre Tout Puissant Polyrythmo de Cotonu, dal Benin e a uno dei più grandi dinamitardi del ventesimo secolo. Se Duchamp giocava a scacchi con Cage questi dodici musicisti si divertono a mescolare le carte, imbastendo un disegno di avant-pop globale, la musica di un mondo ideale, dove il capitalismo ottuso e sfrenato non obbliga uomini e merci a traversate oceaniche e dove Voghera è ancora famosa solo per la proverbiale casalinga e non per i recenti, agghiaccianti fatti di cronaca.

Un suono accogliente, ammiccante, che non fa prigionieri quello dell’ultimo disco, il quinto, «We’re Ok. But we’re lost anyway», sorretto da un impianto afrobeat declinato con un marcato accento radiofonico e un’intenzione da carnevale carioca: ritmo, ritmo e ancora ritmo, per ballare sulle macerie del nostro tempo sfinito e cantare di fronte al disastro, come faceva il poeta turco Nazim Hikmet in faccia ai carcerieri che lo obbligavano a spalare merda.

LA BAND (due batterie, due chitarre, due marimbe, sezione archi e fiati, tutti o quasi alle voci ed il contrabbasso di Vincent Bertholet a scrivere i pezzi e a dirigere) pianta semi ethio-jazz in fertili territori ipnotici (Flux), innesta l’irruenza del post-punk (qualcosa ci ricorda gli olandesi The Ex, declinati in una lingua meno affilata) su filari minimali.

Steve Reich apprezzerebbe il procedere per moduli e sovrapposizioni di strati ed elementi senza mai perdere di vista la canzone e la voce principale, Liz Moscarola, ha un timbro che ricorda Edie Brickell. La ciurma naviga oceani post-rock come dei Black Country New Road senza nebbia e spleen, fa l’occhiolino a un’idea melodica nitida e sbarazzina (Tune-Yards o certo David Byrne), con nuovi rami a fiorire su un baobab miracolosamente cresciuto in un giardino svizzero.

D’altro canto «Siamo su una strada che non porta da nessuna parte» cantavano i Talking Heads, mentre la piccola orchestra onnipotente titola il suo lavoro «Stiamo bene, ma siamo comunque persi»: il sorridente disincanto è lo stesso. I Cure di Close to me visti da una mongolfiera (Babbler), un mood anarchico e coraggioso che mescola iterazioni kraut-rock (Beginning), toy music, vitamine custodite in un carillon, wave uscita dal conservatorio (Be Patient), l’alfabeto polverizzato del rock, scienza del libero disordine, teoria e tecnica del groove (So Many Things). Sfiliamo come perle una collana di inni alla contaminazione in uno scenario spettacolare dove fino al 1 agosto ci saranno altri episodi di questa avventura poetica e di fiume fabbricata in Romagna.
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