Sono cresciuto guardando i film spaghetti-western assieme a mio padre. Guardavamo anche i classici di John Ford e ci riconoscevamo in quei cowboy umiliati e derelitti. Sapevamo che dovevano passarle di cotte e di crude ma avevamo anche la certezza che il film non sarebbe arrivato ai titoli di coda senza che al prepotente non venisse presentato il conto delle sue malefatte. Era un mondo semplice di ricchi proprietari, legulei e imprenditori delle ferrovie da una parte e di umili cowboy o indiani che venivano sopraffatti dall’altra. Ma alla fine i ricchi pagavano per le loro colpe e il sole del selvaggio west baciava sulla fronte quegli umili vaccari così simili ai nostri babbi. In quelle pellicole semplici, di immediata comprensione per la classe operaia, vedevamo illustrati i valori che i padri insegnavano ai figli: pane, salute, lavoro e giustizia.

Dopo la sentenza Eternit dello scorso mercoledì, la parola sentenza mi si sovrappone continuamente col volto duro di Lee Van Cleef in un film di Sergio Leone. Quasi quarant’anni dopo aver visto la prima volta quel film, che conosco a memoria, è difficile fare i conti del dato e dell’avuto. Se guardo alla classe operaia, penso ai lavoratori della Thyssen e a quelli di Casale e mi prende lo sconforto. Se guardo alla mia storia, il quadro rimane avvilente.

In ogni vecchio operaio di Casale Monferrato rivedo la figura di mio padre. Renato Prunetti ha lavorato per anni facendo manutenzioni, coibentazioni, saldature e carpenteria in ferro nelle raffinerie e nelle acciaierie di mezza Italia. Quando è uscita la lista dei dieci siti industriali più inquinati d’Italia, almeno otto stavano dentro alla rubrica telefonica di casa, alla voce R di Renato, dove si appuntavano gli alberghi in cui lui e gli altri operai trasfertisti andavano a dormire, a fianco dei recinti dei cantieri industriali. C’era anche Casale Monferrato in quell’agenda, perché lui aveva lavorato nella raffineria Maura, a pochi chilometri dalla città più esposta d’Italia.

Anche Renato aveva tagliato l’amianto per anni con il flessibile e anche lui aveva provato a rivolgersi alla giustizia. Aveva chiesto due volte il riconoscimento dell’esposizione professionale all’amianto. Peccato che era già morto da sette anni nel momento in cui un giudice lo ha omaggiato dei «benefici» della legge, concedendogli di andare in pensionamento anticipato quando ormai era già «mancato», come si dice a Casale con un eufemismo molto diffuso.

A quale giustizia affidarsi allora mentre a Casale si stringono le fila e si spera in un ultimo tentativo di inchiodare «lo svizzero» alle proprie responsabilità?

I saggi parlano di questioni di lana caprina tra diritto e giustizia. Eppure le nostre pretese erano poche. I nostri vecchi non volevano conoscere il mondo né godersi certi lussi. Pane, salute, lavoro e giustizia nei giorni feriali. Le partite, l’orto, le bocce e la bicicletta nei festivi. Era questa la vita operaia. Si sentivano eroi working class, cowboy con la chiave inglese e la tuta blu al posto del cappello e un muletto a motore diesel che a volte andava al trotto, a volte al galoppo.

Raddrizzavano i ferri e i torti con pochi sapienti colpi di martello, certi della loro lealtà verso gli altri.

Quarant’anni dopo, nel gioco di sponda tra diritto e giustizia, al palazzaccio della Cassazione abbiamo imparato che il diritto è storto e la giustizia ingiusta. Che il pane del lavoro fosse avvelenato ormai lo sapevamo già e la salute dei nostri vecchi i padroni se la sono tenuta come caparra a pegno delle buste paga con cui ci hanno fatto studiare e crescere.

Schmidheiny, non stupirti allora se nei tuoi sogni peggiori sentirai le armoniche di un film western italiano. Prima o poi quelli di Casale arriveranno per raddrizzare i torti, prima dei titoli di coda. Puoi scommetterci un dollaro.

*autore di «Amianto, una storia operaia», edizioni Alegre